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Il veicolo che odio di più

Parlando della differenza tra denotazione e connotazione, qualche giorno prima che finisse l’anno scolastico dicevo ai miei alunni di 1ª E che ci sono delle parti del discorso, come gli aggettivi qualificativi e gli avverbi di modo, che hanno naturalmente una loro dimensione più connotativa. E lo stesso vale per gli alterati  – diminutivi, vezzeggiativi, accrescitivi, ecc. E certi verbi, dicevo loro, hanno un significato più direttamente connotativo rispetto ad altri, che sono più neutri e distaccati. Poi abbiamo letto alcune descrizioni oggettive e alcune descrizioni soggettive. Tra le descrizioni oggettive, il libro di Antologia proponeva una descrizione tecnica della bicicletta e delle parti di cui è composta, tratta dalla Treccani. Mi è venuto in mente a un certo punto di fare insieme alla classe un gioco: trasformare in soggettiva la descrizione oggettiva della bicicletta, usando appunto aggettivi qualificativi, avverbi di modo, alterati, ecc. Ecco qui sotto quello che è venuto fuori. 

La bicicletta

Testo tratto e adattato dalla Treccani

(DESCRIZIONE OGGETTIVA)

Veicolo a due ruote gommate, poste una dietro l’altra, fatto di norma per una persona che, a cavalcioni su un sellino, aziona con la forza muscolare delle gambe la ruota posteriore mentre con le mani impugna il manubrio. La bicicletta si compone di varie parti. Il telaio porta la sella, la ruota posteriore rigidamente fissata e quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo, la scatola del movimento con la moltiplica e i pedali.

La bicicletta, il veicolo che odio di più

(DESCRIZIONE SOGGETTIVA)

Veicolo con due ruotacce gommate, poste banalmente l’una dietro l’altra, fatto per appena una sola persona che, a cavalcioni su un sellino scomodissimo, sfrutta ignobilmente la forza muscolare delle gambe per azionare la ruota posteriore mentre impugna il manubrio con le mani diventate tutte sudate e appiccicose. La bicicletta si compone di troppe inutili parti. Il telaio porta una sellaccia scomodissima, la ruota posteriore (un po’ troppo sottile e rigidamente e pericolosamente fissata) e, peggio ancora, quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo. Infine questi incoscienti ci hanno montato su una scatola del movimento con la moltiplica e degli scivolosissimi pedali. Insomma, soldi buttati!

[Questo breve articolo si p leggere anche sul blog della classe, qui: https://unsorrisoallalettura.altervista.org/il-veicolo-che-odio-di-piu/

Un altro articolo simile tra i miei taccuini lo trovi qui: https://www.mariovalentini.net/ricordo-di-gianni-celati-attraverso-i-racconti-dei-miei-studenti/

Qui invece un articolo sulle esperienze di Mark Twain con la bicicletta: https://www.mariovalentini.net/come-cadere-dalla-bicicletta-senza-romperla-su-un-racconto-di-mark-twain/ ]

Coleotteri e calcetto

Cosa c’entra il gioco del calcetto con i coleotteri? Proprio niente.

Però quello che voglio raccontare è come, grazie a una disgraziata partita di calcetto, ho saputo dell’esistenza di un coleottero che ha delle dotazioni davvero straordinarie. Se ce le avesse un calciatore gli sarebbero molto utili.

Dunque, il fatto è questo. Circa dieci giorni fa mi ero fatto male, appunto, giocando a calcetto. Cioè, mi ero fatto male, era stato un difensore ultrasessantenne ad azzopparmi con uno dei suoi interventi pericolosissimi. Dicono che non lo fa per cattiveria. Il fatto è che lento, dicono. Gli impulsi nervosi del cervello arrivano nelle zone periferiche del suo corpo con un ritardo di diversi secondi. Così, ogni volta che vuole prendere la palla, la palla è già passata da un pezzo, e la sua gamba va a finire su tutto ciò che trova vicino e che palla non è. Nello specifico, circa dieci giorni fa è andata a finire sulla mia caviglia, storcendola tutta e provocando anche una lieve distorsione al ginocchio.

Non ho intenzione, qui, di farmi vendetta verbale grazie al potere di cui gode chi detiene il privilegio della parola scritta, pur avendo passato tre giorni di totale immobilità, sdraiato sul divano. Dopo tre giorni di ghiaccio e creme sulla caviglia infortunata, sono risorto. Era il 22 aprile e c’era una bella giornata di sole. Per testare le effettive condizioni di salute della caviglia, zoppicando ancora un po’, ho fatto una breve passeggiata fino a un comprensorio di ex-capannoni industriali che c’è vicino casa mia. Ora sono un polo rinomato di attività culturali e ricreative della città. Lì ho scoperto che era un giorno speciale, dedicato alla Terra. Mi sono seduto bel bello a un tavolino di un locale dove si beve e si mangia all’aperto. Ho ordinato un caffè e ho incominciato a leggere un libro. Intanto ascoltavo una ragazza che, poco distante da me, spiegava a un gruppo di bambini le magnifiche virtù della menta. E mentre mostrava a questi bambini alcune piante di menta che c’erano in un’aiuola lì accanto, faceva notare delle macchioline un po’ fosforescenti. Erano decine e decine di insettini, dei coleottori. Un tipo di coleottero conosciuto con il nome improprio di maggiolino verde, ma che dal 1758 porta il nome scientifico di cetonia aurata. È stato il famoso Linneo a dargli questo nome.

La ragazza spiegava ai bambini che quel coleottero è uno dei principali impollinatori della menta. Diceva che si nutre di sostanze zuccherine e nettare e così va portando a destra e a manca i pollini favorendo l’impollinazione della menta. Non danneggia le piante. Può risultare dannoso, a quanto pare, solo alle rose e ad alcune altre tipologie di fiori che hanno la caratteristica di avere gli organi riproduttivi un po’ nascosti e poco accessibili. E allora per raggiungere il nettare la cetonia aurata li trapassa facendo del danno. Per il resto sono innocui: sia loro che le loro larve.

Dunque la ragazza diceva ai bambini, dando una lezione di vita e di corretto comportamento ecologico, che non bisogna sterminare i coleotteri con sostanze chimiche perché non fanno male a nessuno, anzi fanno del bene.

Io intanto ormai facevo solo finta di leggere. Ma non leggevo più. Occhi sul libro, ascoltavo con molta attenzione la ragazza che parlava ai bambini della cetonia aurata.

Che animale straodrinario, venivo a sapere, la cetonia aurata. Che grandi dotazioni possiede!

Diceva la ragazza che ad esempio tutti i bambini potevano notare che è un insetto visibilissmo. Non passa inosservato. Non si nasconde dai predatori mimetizzandosi con le foglie o con gli stecchi dei rami, come fanno decine e decine di altri insetti. Lui per salvarsi dagli animali cacciatori che se lo vogliono mangiare usa due tattiche, molto diverse. La prima non è un buon insegnamento per i giocatori di calcetto ma la seconda motissimo.

La prima si chiama tanatosi. Consiste nel fatto che quando si avvicina un animale che se la vuole mangiare la cetonia aurata cade a terra stecchita facendo finta di essere morta. Il predatore, al quale non piacciono le carogne, la lascia stare. E la cetonia si salva. Capite bene che questa non è una buona tattica per un giocatore di calcetto. Se si avvicina l’avversario ultrasessantenne che ti vuole azzoppare non serve a niente che cadi a terra stecchito. Intanto perdi la palla e non puoi più andare verso la porta a fare gol. E poi un calcione ti può arrivare comunque, anche se sei per terra e sembri morto.

La seconda invece, che è altrettanto ingegnosa, se potesse usarla un giocatore di calcetto sarebbe utilissima.

Succede infatti che la cetonia aurata, al suo interno, ha tutti gli organi impregnati di acido urico e acido formico, diceva la ragazza, che sono sostanze puzzolentissime. Quando si avvicina un animale che se la vuole mangiare, la cetonia rilascia questi acidi dalla cavità anale, facendo puzze terribili, che disgustano il predatore facendolo scappare a gambe levate, più lontano possibile. Ecco! Questo a calcetto sarebbe davvero utile. Si avvicina l’ultrasessantenne che ti vuole azzoppare? Tu rilasci l’acido urico. O quello formico. O tutt’e due assieme. L’avversario è disgustato, si ferma, gira alla larga, nemmeno ti si avvicina. Tu stoppi la palla, ti giri, te l’aggiusti, prepari con calma il tiro. Puoi anche fare altri tre o quattro passi verso la porta. Nessun avversario ti si avvicina, anche il portiere si scansa, fai gol indisturbato. È un trionfo. E soprattutto: nessun pericolo di farsi male.

[su argomenti simili tra gli appunti di questo blog si può leggere anche questo racconto: https://www.mariovalentini.net/fare-come-gli-scarafaggi/]

Fare come gli scarafaggi

Secondo Bernd Heinrich fa bene ai corridori umani osservare come corrono gli altri animali. C’è molto da imparare. Anche dagli scarafaggi. Lui, che è stato un campione di corsa su lunghissime distanze, è anche un naturalista tra i maggiori esperti di animali al mondo. Molti segreti per correre, dice, li ha imparati dagli animali.

Nel cap. XII del suo libro fondamentale sulla corsa dal titolo Correre. Una storia naturale (Piano B edizioni, 2022) Heinrich ci insegna che ci sono scarafaggi veloci e scarafaggi lenti.

Blatta fischiante del Madagascar

Lo scarafaggio sibilante del Madagascar per esempio è lentissimo. Non ha bisogno di scappare perché è molto ben corazzato e ha difese formidabili. Si sente indistruttibile e per questo se la prende comoda.

Lo scarafaggio americano è invece velocissimo. Raggiunge velocità equilvalenti a cinquanta volte la sua dimensione corporea al secondo. Che, facendo le dovute proporzioni, sarebbe quattro volte più veloce di un ghepardo, l’animale terrestre più veloce del mondo in termini di velocità assoluta. Com’è che fa? Corre solo su due zampe, come i bipedi, alzando tutte le altre zampe con l’aiuto delle ali.

Dice Heinrich che in America ogni anno fanno una gara di velocità tra scarafaggi che si chiama All-American Trot. Ogni scarafaggio ha un soprannome. Uno, che Hienrich riporta, è Sewer Sam, che tradotto in italiano sarebbe “Sam la Fogna”; un altro è Plain Disgusting, che forse in italiano si può tradurre con l’espressione “Davvero Disgustoso”. Prima di correre vengono contrassegnati con colori brillanti, così gli spettatori li possono riconoscere. Gli scarafaggi vengono tenuti al buio fino al momento della partenza. Allo start si illumina il campo di gara, allora gli scarafaggi scappano via velocissimi. Corrono alla ricerca di un nascondiglio buio, convinti che in questo modo metteranno in salvo la vita. Fanno così da sempre, dice Hienrich, più o meno da 500 milioni di anni.

Dunque questi scarafaggi per correre molto veloci diventano bipedi. Dice Heinrich che probabilmente all’origine della sua storia evolutiva anche l’uomo è diventato bipede proprio per correre più veloce e che anticamente tra i dinosauri probabilmente i più veloci erano quelli bipedi: il Gallimimus, il Compsognathus e il Velociraptor, e che oggi tra i più veloci discendenti bipedi dei disonauri c’è lo struzzo, che è capace di correre ad almeno settanta km orari su lunghe distanze.

Fondamentale nella corsa, per l’uomo, è il tendine di Achille, che si allunga quando il piede tocca terra. Poi il piede si inarca, si solleva sulle dita e allora il tendine di Achille, che è elastico, si contrae rilasciando tutta l’energia che ha appena immagazzinato atterrando.

Purtroppo l’elasticità di questo tendine, importantissimo per mettere a buon frutto il rimbalzo del piede nella corsa, diminuisce molto con l’età. Ecco perché il commesso del negozio in cui vado a comprare le scarpe da running mi dice sempre di stare attento, se ho male alla schiena, alle articolazioni e soprattutto al tendine di Achille. Mi dice sempre di smettere di correre, perché rischio di rovinarmi la salute. Comunque le scarpe, lo dice anche Heinrich, aiutano a effettuare bene il rimbalzo.

Dice Hienrich a pag. 171: “La massima velocità si raggiunge su piste che affondano di 5-8 millimetri (corrispondente più o meno all’elasticità dell’arco del piede). Le scarpe da corsa hanno più o meno lo stesso effetto, a condizione che siano compatibili con la superficie e che lo shock del passo non venga semplicemente assorbito e l’energia dissipata. Usare scarpe con buon rimbalzo in una pista altrettanto elastica non fa recuperare energia; al contrario, l’energia si annulla”.

E questo è solo per dire che il libro di Bernd Heinrich oltre che interessante è anche utile ai corridori, per esempio se devono comprare un paio di scarpe. Io finora le scarpe da running le avevo comprate, con attenzione certo, ma più per sentito dire che per vera convinzione. Per emulazione del mondo, per me distante, dei corridori di lunga data, si potrebbe dire. Non ci pensavo proprio al tendine di Achille, al rimbalzo. Certo l’avrei potuto anche capire da me, ma che ne sapevo che la maggior parte della spinta del piede, nell’atto di correre, viene quasi tutta da un solo dito: l’alluce. Questo Heinrich lo spiega bene. E ti dice anche che se per necessità di fuga repentina centinaia di migliaia di anni fa avessimo dovuto imparare a correre velocissimi avremmo dovuto sviluppare un piede con un unico dito molto solido e lungo, come i cavalli.

Quante cose insegna Heinrich su quella meravigliosa attività umana che è lo sport! Insegna per esempio che le scimmie hanno mantenuto le dita dei piedi prensili per essere più efficaci nell’arrampicata. Noi invece siamo scesi dagli alberi e ci siamo messi in testa questo fatto che bisognava assolutamente imparare a correre. Ed è così che la corsa, grazie all’elasticità del tendine di Achille, all’arco plantare e all’eccezionale spinta propulsiva del dito alluce, è diventata una prerogativa pienamente umana (nella quale invece le scimmie sono un po’ scarse). Sono più forti nell’arrampicata libera, le scimmie.

Ed è così che mi vien da pensare (questo infatti Heinrich non lo dice) che non a caso l’arrampicata libera è rientrata tra gli sport di massa molto più tardi della corsa e che è diventata disciplina olimpica solo a Tokyo 2020. La corsa invece no. Lo è stata da subito, sin dagli albori della prima olimpiade dell’evo moderno (Atene 1896). Ma lo era già nell’antica Grecia.

Nulla avviene a caso, dunque, nella storia dell’evoluzione come nella storia dello sport. Tutto nasce in tempi antichissimi e rimane nella nostra struttura corporea come traccia di una memoria ancestrale. Insomma nasce quando, abbandonati gli alberi, abbiamo iniziato a dedicarci allegramente, correndo a piedi, lance in mano, alla caccia al bisonte. Ed è per questo che ora io corro. Come Forrest Gump. Non faccio altro che andare a correre. Come ai tempi dei tempi, degli avi degli avi degli avi, in un continuo ritorno alle origini.

https://www.pianobedizioni.com/libri/correre-una-storia-naturale/

galline soltanto galline

Il 18 Gennaio è uscito il numero 31 di Nuova Tèchne, interamente dedicato alle galline. Diretta da Paolo Albani e curata con Michele Farina e Jacopo Narros, Nuova Tèchne è una rivista di bizarrie (letterarie e non) che pone al centro della sua ricerca il comico, il nonsenso, il fantastico, il bizzarro, il gioco.

Se ho ben capito, sono tutte galline inedite in Italia quelle pubblicate su questo numero. Di certo la mia lo è. Una gallina della Louisiana che fa coccoodè come tutte le altre ma che pratica il gioco d’azzardo.

Qui di seguito l’elenco di tutti i (più o meno) esperti di galline autori dei testi:

P. Albani R. Barbolini A. Busetto Vicari R. Butazzi G. Calandriello N. Calvagna A. Canaletti A. Castronuovo G. Chiaraluce C. Fabris M. Farina L. Fois E. Frontaloni R. Gianinetti P. Grassini T. Landolfi L. Malerba G. Mammi J. Masini P. Morelli J. Narros A.C. Pedrazzini M. Pelliti P. Pergola S. Poli D. Prato G. Randaccio A. Ravasio J. Renard M. Santinelli G. Scarciello A. Somenzari S. Tonietto A. Trasciatti M. Valentini P. Vistoli J.R. Wilcock G. Zaffagnini G. Zauli

Nuova Tèchne è pubblicata in ebook dalla casa editrice Quodlibet e si può acquistare qui: https://www.quodlibet.it/rivista/9788822913616

Ricordo di Gianni Celati attraverso i racconti dei miei studenti

Il 3 gennaio 2022 ci lasciava Gianni Celati. Mi piace oggi ricordarlo attraverso alcuni pezzettini scritti dai miei studenti di seconda media. Avendo con loro discusso a lungo nel corso di quest’anno scolastico su cos’è il tempo, a novembre ho letto in classe il racconto “Tempo che passa”, tratto da Narratori delle pianure. Quindi ho lasciato da svolgere a casa un esercizio: scrivere una lettera a qualcuno mettendosi nei panni della protagonista del racconto. Qui di seguito alcune delle lettere, per come sono saltate fuori. Si possono leggere anche sul blog della classe, in questa sezione: http://unsorrisoallalettura.altervista.org/category/lettere-a/.

Chi fosse interessato, come diceva una mia anziana zia, a cose di scuola, può dare un’occhiata all’intero blog qui: http://unsorrisoallalettura.altervista.org/

Non bisogna sprecarlo di Laura P.

27 Novembre 1986

Cara Ludovica,

ti sei mai chiesta cos’è il tempo? L’altro giorno ci stavo riflettendo mentre rientravo a casa dopo una giornata di lavoro faticosa. Il mio quartiere è circondato da centri commerciali, distese di campagne e ville. Tra queste zone ci sono parecchie differenze. Ogni giorno mentre percorro la strada di ritorno per casa mi immergo in due realtà ben differenti. Nel centro commerciale c’è una gran confusione tra rumori di macchine, gente che cammina parlando e poliziotti privati che cercano di calmare il traffico, qui sembra che il tempo scorra più velocemente. Tutto cambia quando passo tra le villette, sembra che il tempo non passi mai per colpa del silenzio. Come se le persone stessero aspettando l’ora del pranzo o della cena. Più avanti ci sono delle ville più ricche, i giardini sono decorati con molti dettagli. Penso che queste persone sprechino il tempo a decorare le loro case  per nascondere la propria realtà. Non gira quasi nessuno nel mio quartiere e questo mi provoca molta tristezza. Secondo me il tempo va utilizzato per cose più importanti e non bisogna sprecarlo.

Com’è da te il quartiere? Credo che a Torino ci sia più movimento e vitalità rispetto a qui. Raccontami un po’.

Ti abbraccio forte,

Selena

Qui le lancette si spostano a fatica di Elia V.

Cara Ginevra,

spero che tu stia bene. Nella tua ultima lettera mi hai chiesto il mio parere sul tempo quotidiano. Beh, mia cara! Devo dirti che nel mio paese il tempo è come morto, immobile e tutti gli abitanti stanno rintanati nelle loro casette, compresi i miei genitori, aspettando che arrivi la fine dei loro giorni. Non so quanto tempo è passato ma, nel mio paese, non vedo più nessuno che sorride da molti mesi. Non si vede neanche un cane, tutto è fermo. Se guardi l’orologio noterai che le lancette si spostano a fatica. E le persone, per non disperare, si circondano di oggetti di plastica. Almeno, questa è la visione del mio paese, spero che a te le cose vadano un po’ meglio.

Un caro saluto,

la tua amica.

Sono davvero noiosi di Gabriele M.

21 Marzo 1980

Cara Diana,

come va la vita in America? La mia vita qui sicuramente è molto noiosa. Ogni volta che torno a casa dal lavoro con la macchina mi fermo e ascolto il tempo ed è talmente silenzioso che sembra che un minuto non passi mai. Mi capita di percorrere le vie di una piccola cittadina di nome Cicognolo, lì c’è un silenzio davvero strano, poi ci sono delle villette in cui a prima vista pensi che ci siano bambini che giocano, cani che abbaiano, ma niente, sono tutti rinchiusi nelle proprie case. Queste persone non fanno che ascoltare l’assenza dei rumori o il tempo che passa e questo fa sì che il tempo non passi mai; perciò aspettano che arrivi la colazione, il pranzo, la cena ed il momento di guardare la tv: gli unici momenti in cui non badano al silenzio o al tempo che passa. Qualche volta addirittura non me la sento di tornare a casa dai miei genitori, sono tali e quali alle persone rinchiuse in casa di cui ti ho parlato prima, di fatto proseguo fino a San Daniele Po e anche oltre. Non ce la faccio proprio a stare con loro, sono davvero noiosi, e io vorrei divertirmi, vorrei sentire un tempo che passa velocemente in cui accadono tante cose.

Spaventati da un minuto che non passa mai di Gian Pol L.

18 Aprile 1980.

Carissima Alice,

non ti scrivo da tanto tempo ma oggi sì, come stai? Io bene e come sta Peppino? Ho saputo che si è fatto male al piede e ora ascolta il tic e tac dell’orologio. Sai, in questi giorni quando vado a lavorare mi metto sempre ad ascoltare il tempo che passa. Ascolto le musichette nei piazzali e ogni tanto la voce di uno speaker che annuncia una vendita speciale, i fischietti dei poliziotti che smistano il traffico. In giro si vedono macchine, ma non si vedono cani né bambini, infatti gli abitanti vivono nascosti in quelle casette, uscendo allo scoperto come dei ladri solo per andare a lavoro o fare la spesa. Allora nello spazio riempito da quel silenzio abitativo c’è solo tempo che passa, perché il silenzio lo rende così lento che sembra non passi mai. La gente chiusa in casa non fa che pensare alla mancanza di rumori, aspettando il momento del pranzo o della cena o l’ora di guardare la televisione. Il tempo si allunga ancora di più come un elastico e gli abitanti si ritrovano là dentro spesso spaventati da un minuto che non passa mai. Questo è tutto per oggi ma ancora ci sono altre cose che succedono qui, ti scriverò in un’altra lettera che mi è finita la penna.

A presto e tanti saluti,

Cesarina

Io non mi sento al cento per cento di Greta G.

Cara Marta,

sono felice che tu ti sia trasferita a Napoli, è una bellissima città, mi auguro che tu stia bene, io non mi sento al cento per cento ma ti spiego meglio.

Da quando ho quel nuovo lavoro di cui ti ho parlato, passo spesso in mezzo a dei paesini sperduti della padana: è sempre il momento più difficile della giornata perché c’è troppo silenzio e mi metto ad ascoltare il tempo che passa.

Tutto questo silenzio è dovuto al fatto che le persone sono introverse, se parlassero il tempo scorrerebbe più velocemente come quando in piazza ho visto dei ragazzi divertirsi. Le persone stanno sempre in queste villette da sole ed impazziscono ad ascoltare il tempo che passa.

P.S: Spero di non averti annoiato con le mie parole. Stammi bene.

da parte di Greta

Non abbrutirti pure tu di Marcello F.

Cara Pinù,

ho voglia di raccontarti cosa mi è successo oggi tornando dal lavoro.

Inizio dalla fine: vedere dei ragazzi spensierati al bar di San Daniele mi ha fatto riflettere sul tempo. Ogni giorno come sai faccio la stessa strada per tornare a casa, e tutte le volte osservo le stesse cose e mi metto a pensare. Ma oggi vedendo quei ragazzi non ho più voglia di pensare e di giudicare niente.

Faccio ogni giorno 50 km, attraversando campagne desolate, vedo centri commerciali con i loro parcheggi, e vedo persone come robots, tutte uguali. Vedo villette tutte uguali e sento tanto silenzio. Le persone mi sembrano nascoste in casa e mi immagino che siano solo in attesa del pranzo, della cena o di altre cose da fare. E stanno ad aspettare. Ma pensandoci il tempo si allunga come un elastico e si ha paura che non passi mai.

Anche quando passo da Pieve San Giacomo ho la stessa sensazione e quando arrivo alla strada di casa mia, tiro dritto, non voglio entrare e vedere i miei genitori come in attesa della morte, immobili. Il vuoto intorno alle case mi sembra come una trappola. Il tempo è solo tempo, tempo senza più tempo, perché non va da nessuna parte.

Quindi ti prego non abbrutirti pure tu.

Vangeli nuovissimi in Svizzera (forse).

Qualche mese fa mi era stata recapitata un’email da parte di una sconosciuta sedicente studentessa svizzera che sosteneva di chiamarsi Alessia Blum. Sosteneva anche di abitare a Lugano e di essere in procinto di laurerarsi presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana con una tesi sul tema della fragilità della figura di Gesù nella letteratura italiana dagli anni settanta a oggi. Sosteneva anche che in questa tesi avrebbe analizzato il mio libro Vangeli Nuovissimi insieme ad altri due libri che riprendono i vangeli: Il quinto evangelio di Mario Pomilio e La notte del lupo di Sebastiano Vassalli.

La faccenda mi puzzava. Mi puzzava di scherzo, truffa o raggiro. Ero certo che dietro quella Alessia Blum ci fosse qualche buontempone di internet, un hacker o magari qualche conoscente maligno che voleva truffarmi o prendersi gioco di me. Ne ero certo per due motivi. Primo: per il cognome, che era evidentemente stato inventato storpiando il famoso personaggio dell’Ulisse di Joyce. Secondo: perché tra tutti gli scrittori che erano stati, come dire, invitati a partecipare alla tesi l’unico vivo ero io. Ero evidentemente stato individuato, tra tanti autori viventi di libri, come l’unico gonzo che poteva cadere in uno scherzo o truffa, mettendolo in mezzo a della gente morta da tempo.

Io, che nelle trappole e nelle truffe di internet non ci casco mai e che ad esempio alle email che ti dicono che hai ricevuto un’eredità in Uganda non rispondo perché so bene che si tratta di una truffa in cui vogliono spillarti dei soldi, sto sempre sul chi va là per non cascare nelle trappole di internet. Dunque l’ho capito subito che si trattava di uno scherzo o di una truffa. E così ho fatto solo finta di rispondere all’email, per vedere come andava a finire.

Questo hacker che si nascondeva dietro il finto nome di Alessia Blum, inventato ispirandosi all’Ulisse di Joyce, era un hacker bravissimo. Mi ha fatto un’intervista impostata molto bene, con delle domande proprio ben poste, si vedeva che aveva perfino letto attentamente il mio libro, Vangeli Nuovissimi. E io ho risposto alle sue domande, solo per vedere come andava a finire la cosa, sapendo benissimo che si trattava dello scherzo di un hacker. Era un hacker con un’ottima cultura personale, perché poi ha portato avanti lo scherzo talmente bene che davvero ha fatto finta di scrivere la tesi. Ma una tesi fatta proprio benissimo, molto interessante. A un certo punto me l’ha anche spedita via posta, facendo finta di essersi laureata, e ci ha messo una bellissima dedica, proprio come se fosse veramente una vera studentessa che ti sta ringraziando per avere collaborato alla sua tesi di laurea.

Ora metto le foto della finta tesi qui sotto, ditemi voi se non c’era da cascarci a uno scherzo del genere, fatto benissimo, di una che fa finta di fare la tesi su un tuo libro. Ma io sono un dritto e non ci sono cascato, non ci ho creduto. Non sono un gonzo io, a me non la si fa tanto facilmente, anche se la tesi devo dire che era fatta davvero bene.

Poi, com’è, come non è, lo scherzo è continuato fino a ieri. L’hacker ha fatto finta di essere anche una giornalista che scrive su un giornale del Canton Ticino, Il Corriere del Ticino si chiamerebbe. E mi ha spedito la foto di una finta pagina di giornale in cui ci sarebbe l’articolo completo con l’intervista a me. Proprio imitato precisamente, sembra vero il giornale. Ditemi se al posto mio non ci sarebbe cascato chiunque a questo scherzo. Roba da non crederci, proprio!

Via Solferino 36

Alberto Zambelli è per me da più di vent’anni Alberto socio. Lo è per distinguerlo da altri Alberto che da molti anni popolano la mia vita. “Socio” vuol dire che, ai tempi in cui l’ho conosciuto, alla fine degli anni novanta, a Bologna, era socio di un’altra mia amica di nome Graziella e datore di lavoro di una mia ex fidanzata di nome Arianna.

Alberto Zambelli è un artigiano, restauratore soprattutto di antiche cornici e oggetti d’arte in legno. L’ho visto un mucchio di volte intagliare, lavorare di lima o di sgorbia, prendere delle sottilissime foglie d’oro e applicarle con grande precisione e pazienza sulle cornici da restaurare, soffiandoci sopra per separarle l’una dall’altra o per farle aderire ben bene alla superficie da ricoprire. In quanto grande intenditore di pezzi antichi è anche conoscitore di musei e luoghi storici della città in cui abita, Bologna appunto, e dei dintorni. Conosce tutto: palazzi o ville storiche in cui lo chiamano ogni tanto per valutazioni o restauri, e piccoli musei in cui si custodiscono opere anche di secondaria importanza e non particolarmente note. Se ti dai appuntamento con lui di mattina per prendere un caffè può capitare, come mi è effettivamente successo ad aprile, che ti chieda se lo accompagni a vedere un piccolo museo (abbastanza sconosciuto ai più) nel centro di Bologna, con pezzi d’arte del ‘500 o del ‘600, perché ci sono delle cornici che deve visionare. Sono uguali ad alcune cornici su cui sta lavorando e il cui intaglio deve riprodurre, e per questo deve andare a studiarle nei minimi dettagli. E così ci andate. Lui fotografa, analizza, paragona; tu ti aggiri per il museo e fai il turista; la vostra amica Graziella, che anche lei è una bravissima restauratrice, un po’ aiuta lui ad analizzare, un po’ aiuta te a fare il turista.

Gite fuori porta

Alberto socio è un ottimo compagno di gite fuori porta, soprattutto se allo scopo di visitare magazzini che custodiscono e rivendono robe del passato, pezzi vintage, mobili dismessi anche vecchi o vecchissimi, oggettistica di vario tipo e uso. Alla fine degli anni ’90 ne facevamo spesso di queste gite, io con Alberto socio e la ex fidanzata Arianna, e ci portavamo via di tutto un po’. Poi Arianna costruiva con quegli oggetti opere d’arte o scenografie; io mi ci arredavo la casa; Alberto socio progettava e realizzava mobili. Per due volte con i pezzi recuperati in qualche magazzino Alberto socio ha realizzato dei mobili proprio per arredare casa mia.

L’altro giorno, sabato 24, ero a Bologna per delle faccende letterarie e avevo la mattina libera. Ho detto ad Alberto che avrei voluto vedere un museo della fotografia di cui avevo molto sentito parlare e che non avevo ancora visitato. Lui, che è un grande conoscitore di musei, l’aveva già visto diverse volte. Ma c’era una mostra nuova nuova, appena inaugarata, e anche lui era interessato a vederla. Così, dopo tanti anni che non lo facevamo, abbiamo organizzato una bella gita fuori porta e siamo andati lungo la via Emilia in bicicletta fino al MAST, una sorta di museo della fotografia interamente dedicato al lavoro industriale.

Image Capital

Image Capital, la mostra in corso al MAST di Bologna fino all’8 Gennaio 2023, è un progetto dell’artista e fotografo Armin Linke e della storica della fotografia Estelle Blaschke. Non è propriamente una di quelle mostre riposanti, in cui entri e ti godi per un’ora o più delle foto che riempiono gli occhi grazie alla loro fascinazione estetica. Si tratta piuttosto di un lungo e elaborato saggio per immagini e video. Richiede applicazione e concentrazione. Indaga il ruolo centrale che la fotografia detiene in quanto tecnologia dell’informazione, spesso proprio nel cuore dei processi industriali. Come ha scritto Michele Smargiassi su Repubblica: “Image Capital è un’investigazione e uno svelamento critico dei meccanismi attraverso i quali la fotografia raccoglie, seleziona, archivia, utilizza e diffonde informazioni”. Il percorso espositivo di Armin Linke e Estelle Blaschke tratta insomma la fotografia come “capitale semantico disponibile per utilizzi diversi, strumento e fonte di potere”. Chi possiede una gran massa di informazioni fotografiche ha oggi in mano un potere sterminato. Le immagini fotografiche vengono a costituire archivi, banche dati da cui si ricavano in continuazione informazioni dettagliate che arrivano a costituire una “formidabile fabbrica di valore anche commerciale”, come avviene per quella multinazionale multimiliardaria che custodisce i rulli di celluloide, i microfilm e i materiali cartacei (anche) dell’Ufficio brevetti e degli Archivi Nazionali degli Stati Uniti in una cava di calcare esausta della Pennysilvania chiamata Iron Mountain.

Via Solferino 36

Ci sono stati degli anni che andavo quasi ogni giorno a vedere restaurare cornici e antichi pezzi d’arte nel laboratorio che Alberto socio condivideva con la mia amica Graziella e in cui era impiegata l’ex fidanzata Arianna. Lo devo ammettere, mi attirava lì dentro con tanta insistenza soprattutto il pensiero della mia fidanzata. Ma ogni volta che mettevo piede in quel laboratorio era come entrare in un piccolo mondo magico di concentrazione e silenzio. C’era la radio che andava spesso su alcune emittenti rigorosamente selezionate, chiacchiere che scivolavano lente nel bel mezzo del loro lavoro manuale, qualche bella risata per qualche storia un po’ assurda successa ad alcuni di noi o riferita da qualcun altro. Ogni tanto Graziella perdeva un po’ la pazienza per quelle continue visite e per quel continuo sostare nel laboratorio, che distraeva dal lavoro. Capivo che era meglio sloggiare, fare altri giri, rimandare a giornate più tranquille le chiacchiere.

Quel laboratorio non c’è più da molti anni. Per un certo periodo Alberto Zambelli ne ha tenuto aperto uno per i fatti suoi. Avrebbe dovuto perdere per questo motivo l’appellativo di Alberto socio, perché non era più socio di nessuno. Ma non l’ha perso, rimarrà Alberto socio per sempre. Poi, per del tempo, ha dovuto chiudere anche quel laboratorio, e si appoggiato a un’altra struttura o è andato a fare i suoi restauri in loco: direttamente negli antichi palazzi e nei musei.

Infine, da qualche anno, ne ha aperto un altro, in via Solferino 36. Sono andato a trovarlo lo scorso venerdì, di pomeriggio, più o meno all’orario di chiusura. Mi diceva che per il lavoro che fa avere una vetrina che dia sotto un portico, in cui chiunque possa vedere i pezzi, gli strumenti, il suo lavoro stesso, è una cosa a cui non vuol più rinunciare.

Il laboratorio di restauro di Alberto Zambelli in via Solferino 36 a Bologna (vetrina)

Quando sono entrato c’era ancora la radio che andava su un’emittente rigorosamente selezionata. Era sempre lo stesso tipo di posto magico. Anzi, lo era di più, se possibile, perché ora, in questo nuovo laboratorio di Alberto socio, ci sono vetrinette piene di libri, di cui è grande cultore e appassionato lettore; oggetti che ha recuperato e collezionato girando per fiere, magazzini e negozi di rigattieri; macchine fotografiche; strumenti musicali acquistati (clarinetti, cornette) e violini costruiti da lui; arredi, oggetti di ogni tipo e di qualsiasi uso. Su una parete, gli strumenti da lavoro: pialletti e sgorbie di ogni misura e forma. Sui banchi da lavoro altri strumenti: colla vinilica, siringhe, morse e morsetti, pialle di ogni misura, martelli e una gran quantità di altra roba il cui nome e utilizzo sconosco. E poi, sparsi dappertutto, i più svariati oggetti: delle forme da calzolaio in legno, cornici appese ai muri che incorniciano ali d’angelo o antichi piedi di mobili intagliati. Lampadari e piatti di bilance pendono dal soffitto. Un’altra antica bilancia, bellissima, è addossata a una parete, appoggiata su una mensola, incastrata tra due vetrine piene di libri. Sotto la bilancia c’è una collezione di colori in tubetto per artisti con la scritta Winsor & Newton. Davanti, su uno strano supporto in ferro, c’è appoggiato un grande schedario in legno. Su uno dei banconi c’è un oggetto in fase di restauro: una grande testa di moro in legno su cui Alberto sta applicando delle dorature.

Non è un magazzino delle cianfrusaglie, non c’è niente che sia stato accatastato alla rinfusa. In quanto laboratorio artigiano lo spazio deve essere efficiente e vivibile. A me pare piuttosto un luogo di lavoro che aspira a diventare un piccolo museo vivente del lavoro artigiano. Un museo in uno spazio un bel po’ ridotto. Un museo delle ore e dei giorni che passano pazienti. L’accumulo qui è altamente selettivo. Oltre al lavoro artigiano, e agli oggetti d’arte e del lavoro artigiano, qui si celebra e si custodisce la pazienza e la perizia. Per questo succede che entrando in quel piccolo spazio-laboratorio il tempo improvvisamente si allunga, si deforma, si posa, si dilata. Anche lo spazio, che è ridottissimo, si dilata e si allarga. Le parole e le musiche provenienti dalla radio arrivano alle orecchie più nette e riposate. Tu ci entri, ti siedi, ti posi anche tu. Indossi abiti più calmi. Se ci stai dei minuti o qualche ora, cambia poco: uscendo hai come l’impressione che hai passato lì dentro dei giorni.

Altre notizie sulla Fondazione MAST di Bologna le trovate qui: https://www.mast.org/

Notizie sul laboratorio di restauro Angelo d’oro di Albertoo Zambelli le trovate qui: https://www.informazione-aziende.it/Azienda_ANGELO-DORO-DI-ALBERTO-ZAMBELLI

Tutti i Viaggi nei paraggi raccontati in questi taccuini, invece, sono raccolti qui: https://www.mariovalentini.net/category/dentro-e-fuori-i-paraggi/

Petraio di Silvio Perrella nei miei appunti

(cover: da Radure di Antonio Biasucci)

Pubblico qui, dritti dritti dai miei taccuini cartacei, gli appunti presi su PETRAIO di Silvio Perrella (La Nave di Teseo, 2021) in occasione della presentazione di UNA MARINA DI LIBRI (Palermo, Giovedì 9 Giugno 2022)

Un momento della presentazione di Petraio a Una marina di libri di Palermo

Come iniziare a parlarne

Paragone tra Doppio scatto (libro pubblicato da Silvio nel 2015 per Bompiani) e Petraio, evidenziandone lo scarto, ma mettendo anche in evidenza come l’uno nasca dall’altro e forse lo prosegue.

Si può leggere prima il pezzettino intitolato “Doppio scatto”, da Petraio [pagg. 15-16]

Doppio scatto

Nell’andare per le strade si cercano cornici, scorci rivelatori, dettagli che parlino.

Le cose nel loro aperto, squadernate nell’aria che passa come vento, fuggono. A volte le hai dinanzi agli occhi e non le vedi. Diventano invisibili.

È stato detto: per vedere bisogna avere visioni.

E non ci sono dubbi: la visibilità del mondo si acuisce se lo si incornicia. […]

Dietro ogni pietra ci sono un respiro, un’abitudine, un letto, una moltitudine di oggetti e lampade e lampadari e abat-jour.

Un dondolio di relazioni.

È bastato indietreggiare nello spazio del cortile, e da lì fermarsi improvvisamente a guardare.

La cornice si è fatta avanti con naturalezza. Gli occhi l’hanno cercata, trovata a istinto, e usata.

Nel silenzio del cortile si sono avvertiti due scatti: lo scatto della mente e quello di una scalcagnata e avventizia macchinetta fotografica.

Silvio Perrella, Petraio, La nave di Teseo, 2011 [pagG. 15-16]

e poi il brano sul Petraio presente in Doppio scatto [pag. 13], anche per chiarire che il Petraio è una delle scalinate di Napoli che collegano la città alta dalla città bassa:

Il Petraio, che bel nome. Fa pensare alle Rime Petrose di Dante. Ogni scalino è come un verso, un invito al saliscendi. E anche alle digressioni.

È vero, in genere si va dal Vomero al Corso, la Discesa del Petraio la si usa per congiungere in modo rapido due zone diverse della Città. Lo si fa quando si vuol fare a meno della Funicolare. E a scendere il passo è lieve […].

Costeggio i muri tufacei, impreco contro chi tenta d’incarcerarli nel cemento, passo le dita lungo i corrimani, saluto qualche raro passante (spesso si tratta di turisti stranieri con il fiatone), e scopro che ci sono altre scale oltre a quelle principali.

Prima dello slargo, dove incontrerò Tonino, c’è una possibile deviazione. Il ritmo suggerito dai gradoni è diverso […].

La ringhiera delimita con nettezza lo spazio, imprimendo, verso i tre quarti, una piccola curva sull’ascesa. […]

Qui è tutto fatto di pietra ma il mare non manca. Basta proseguire il cammino e guardare oltre il basso parapetto.

Silvio Perrella, Doppio scatto, Bompiani, 2015

Continuare poi così

Doppio scatto era un libro di luoghi attraversati, in cui l’esterno si poteva poi ri-attraversare, a volerlo fare, tornandoci anche da soli e riuscendo a ritrovare quanto descritto e raccontato. C’era un condurre per mano il lettore attraverso la superficie della città, grazie a un’osservazione geograficamente puntuale. Questo, Petraio, a me pare piuttosto un libro di meditazioni, in cui il luogo quasi sempre presto sfuma e non sai bene dove collocarlo, diventa pretesto e occasione per indagare pieghe, interstizi, trame e strati. Fino a perdere il fuoco (fotografico) del luogo per mettere a fuoco altro: qualcosa di molto piccolo o forse di molto molto più grande del luogo stesso. Qui, in Petraio, si saltano passaggi. Al lettore si dà appuntamento in un posto ma per portarlo poi subito da tutt’altra parte.

Usare l’analogia con gli obiettivi fotografici

Se Doppio scatto è una scrittura da obiettivo 50mm o al limite da grandangolo (c’è insomma la possibilità di leggere nitidamente il luogo entro il contesto in cui si colloca), qui in Petraio è lo zoom che la fa da padrone e certe volte addirittura il cosiddetto obiettivo macro (o, all’opposto, un campo lunghissimo che conduce quasi all’indistinto). Lo zoom indaga le pieghe e i dettagli, corrugamenti e statificazioni, spesso arrivando a astrarre del tutto il dettaglio dal contesto. La città non è più roba da cartografi (come in doppio scatto) ma da geologi e speleologi.

Usare un paragone (mooolto azzardato e un po’ minchione) con la fisica?

Lo scarto tra Doppio scatto e Petraio come quello tra la fisica newtoniana e la meccanica quantistica: uno spostamento di prospettiva che dall’analisi del visibile conduce alla materia e al subatomico.

Dire la necessità di tornare più volte a rileggere sempre gli stessi pezzi

Dire che è un libro che va meditato, bisogna tornarci su un po’ di volte sui diversi pezzettini che lo compongono. Come in un’indagine geologica (un carotaggio ad esempio) vai scoprendo sempre nuovi strati che a un primo sguardo più veloce ti erano sfuggiti.

Ad esempio, questi:

  • Per come l’ha sempre raccontata Silvio, Napoli è una città verticale. La posizione privilegiata d’osservazione, questa è l’impressione che ho sempre avuto, è lungo una delle sue numerose scalinate. Ed è quasi sempre nella direzione di chi scende. Attraversare Napoli ed esplorarla è per lo più come se fosse un andar giù. Ora, in Petraio, questo andar giù si fa ulteriore. È una verticalità che riguarda anche la materia di cui è fatta la città, non solo i suoi affioramenti cartografabili. Ed ecco l’attenzione per tutto ciò che è sommerso: “le catacombe, gli ipogei, le caverne di tufo…” (come si dice ad esempio nel brano a pag. 67, La piscina circolare del passato). Qui la (fortunata, visto che a quanto dice Silvio è quasi sempre chiusa) visita al cortile dell’Annunziata viene descritta come un avvitamento verso il basso, in un moltiplicarsi di cerchi concentrici. Ed è questa una forma del tempo. Un tempo ciricolare, non perché ciclico, ma perché è come un risucchio, uno sprofondamento, un avvitamento appunto. È questa una variante, abbastanza nuova, di quel particolare modo di esplorare la città che mi sembra abbia sempre predicato Silvio: che Napoli è una città che si scopre scendendo. Da dove e perché questo scendere?
  • Fermo immagine (pag. 70-71): ancora una volta il dettaglio (dei piedi di una giovane donna che sale una scalinata), che sfoca tutto l’intorno. Osservazione dei piedi, con il tacco, la suola, ecc.
  • E, superati i movimenti di sprofondamento: ecco i movimenti ascensionali. Spesso sono solo un girare gli occhi verso l’alto, per esempio a osservare una cupola.
  • Il tema del tempo: la deturpazione del tempo sul volto della madonna e del bambino (pag. 75-76) con i loro stessi volti “intaccati dalle insidie”; o il tempo che “si avvita verso il basso” nell’esplorazione del cortile dell’Annunziata; o il tempo che è presupposto nei diversi muri spellati di cui si parla in più punti (Un soffiatore di morte, pag. 29-30); o nello sfarinarsi della pietra tufacea (in Sinfonia petrosa a pag. 61-62 ad esempio); o il tempo che insidia l’integrità di un muro, che se metti un dito tra le sconnessure di due pietre potrebbe crollare incenerendosi (Questo muro scalalo, pag. 47-48); o come nella chiesa dimenticata di Come si tiene in piedi un moribondo (pag. 25-26).
  • Sempre il tempo (stavolta in rapporto ai mezzi di locomozione) – in Nell’aldilà del finestrino (pag. 111) è il treno (“il treno fugge via; arroventa le rotaie; è freccia che buca il tempo; è ingurgitatore di destinazioni e di destini”); ne Il vangoncino della funicolare è appunto la funicolare (“Il tempo scorre lento. Lo si è raffigurato spesso come un fiume. E in un celebre proverbio l’uomo capace d’aspettare sta sulla sponda, sapendo che prima o poi passerà il cadavere del proprio nemico… nello scendere il vangoncino fende gli strati del tempo; che scorre, certo, e s’infiltra nelle percezioni di questo attimo dilatato”); in La luce agglutinante (pag. 363-364): sosta in stazione, forse nell’edicola a lato hanno Cristo si è fermato a Eboli (“E se fossimo dopo Eboli? E se ci fossimo imbrigliati in uno di quei sotterfugi per il quale il tempo sembra fermarsi ed entrare in una fase di sospensione muta?”). In questi casi i mezzi di trasporto sembrano essere quasi delle porte spazio-temporali, capaci di proiettarti verso un tempo altro, verso un luogo altro, o per eccessiva accelerazione o per un irreale rallentamento. Ecco che la percezione del mondo lì fuori ancora una volta si sfoca, svanisce, si fa porosa di altri luoghi e di altri tempi. Qusta realtà diventa un’irrealtà. O, meglio, si popola di possibili presenze fantasmatiche: qualcosa che appare ma non è detto che ci sia. Apparizioni e vanificazioni (o vaneggiamenti?).
  • Tema del collezionare – Collezionista di scale (pag. 21-22) – Nell’aldilà del finestrino (pag. 110-11): “Ci si sposta negli spazi urbani; si va da qui a lì, cercando visioni e scorci; collezionando immagini-sentimenti; rimuginando frammenti di mondo” – in Il tempo dei passi persi (pag. 117-118): “Farsi collezionisti di andature è quello che le città suggeriscono… la sua è un’andatura perplessa. Piede sinistro in avanti, il destro in attesa del suo turno; il bastone obliquo”
  • Segni, alfabeti, grammatica, sintassi. Spesso sono segni di una lingua segreta, tutta da smorfiare, da tradurre, da interpretare come si interpretano i geroglifici. Come in Nel retromondo del muro (pag. 115): “Qui gli alfabeti fanno a gara. La città è nominata nelle sue torsioni. È funicolare singhiozzante. Tango glaciale… Le lettere sono vergate sul legno dipinto di verde, stella cometa e freccia… Sintassi a strappo, parole striate di sangue”. E poi, in Atmosfera dell’attesa (pag. 123-124): il treno verso i Campi flegrei, che lambisce le tombe dei poeti Virgilio e Leopardi, conduce a una “atmosfera dell’attesa, precipizio delle piante, strada ferrata, bàsoli, andirivieni: si guarda e mentre si guarda si forma un alfabeto per dare forma alle forme”. E infine il disegno dello scorfano che mangia parole di Vincenzo Gemito in L’alfabeto messo a sgocciolare (pag. 373-374).
  • Tema finale dell’estate e della fine dell’estate. Bellissimi gli ultimi tre pezzi: le due sedie a sdraio vuote e Rolling stones sopprattutto.

DIALOGHI CONTINUI

(alcuni costituiscono proprio il titolo stesso del pezzettino) – sono come un alfabeto per leggere gli spazi attraversati (ognuno ha il proprio alfabeto personale con cui intesse le sue scritture):

  • CELATI – Cinema all’aperto (pag. 81)
  • MONTALE + DE CHIRICO: Il teorema dellle ombre (pag. 80)
  • GIORGIO MORANDI: Come un quadro di Giorgio Morandi (pag. 45)- “oggi ogni elemento è un alfabeto” – “sì, ogni elemento è un alfabeto; non solo Abc, ma colore, oggetto, pietra, scansione, ritmo, volumetria” – “prosodia dello sguardo”.
  • THOMAS JONES (1742-1803) + EDWARD HOPPER – Come un muro di Thomas Jones (pag. 43) – breve storia di Thomas Jones, gallese giunto a Napoli: chi era, la sua sosta a Napoli, l’amicizia con Lusieri (uno dei maggiori vedutisti dell’epoca), la sua ricerca di muri (davvero belli i dipinti che ho trovato on-line), la donna amata – “Un Hopper in anticipo”
  • JOSEPH CORNELL (1903-1972) – Come le scatole di Joseph Cornell (pag. 41): “Tritume di muro. Nello stesso spazio affiora un arco. E sotto brilla il tufo. E i colori sono quasi circensi” – “cosa avranno da dire queste pietre sbilenche che stazionano in anfratti?” – “alfabeto smembrato e fatto a pezzi dall’usura; sempre riappare e balugina e dice se stesso come in un balbettio lontano”.
  • FABRIZIA RAMONDINO, Althénopis, in Cielo e squarcio (pag. 105)
  • Ecc. ecc.

Un altro post sullo stesso argomento si trova qui: https://www.mariovalentini.net/a-una-marina-di-libri-con-silvio-perrella-e-ugo-cornia/

Tra gli Ironici di Francesco Spiedo (su Limina)

Sulla rivista LIMINA Francesco Spiedo sta curando una rubrica su autori che hanno scelto la comicità come via alla narrazione per i loro libri di recente pubblicazione. Dopo le prime tre puntate dedicate a libri di Gianfranco Mammi, Paolo Colagrande e Giacomo Sartori, la quarta puntata è dedicata ai Vangeli nuovissimi. C’è prima un’analisi del libro, poi un dialogo/intervista, infine tre consigli di lettura. Riporto qui l’inizio del lungo articolo, per rimandare poi la lettura completa al sito di LIMINA. (l’illustrazione, realizzata per Limina, è di Federico Arrigoni).

di Francesco Spiedo

Ironici è una rubrica che si pone due obiettivi: chiedersi quali siano le possibili forme del comico e costruire una collana virtuale di testi ironici. Tutto questo combinando una recensione, un’intervista e una breve lista di consigli per gli acquisti. Per provare insieme a dare maggior voce al comico e trovare una risposta alla fatidica domanda: mi consiglia qualcosa che mi faccia divertire?

«Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento tanto bene.»
E. Ionesco 

La citazione in esergo spesso viene attribuita, pare sbagliando, a Woody Allen. Ora non è tanto importante chi non si senta bene, quanto invece il legame che c’è tra religione e umorismo, fede e comicità. In questo filone molto prolifico, che va dai racconti antifrateschi del Decameron fino ai romanzi di Niven, passando per i meme su Gesù e film come Brian di Nazareth, troviamo Vangeli nuovissimi di Mario Valentini. “Nessuno è profeta in patria”, per restare nell’ambito delle citazioni, è una frase drammatica, ma che, come accade spesso in questo testo, finisce per indossare un sorriso leggero, l’aspetto di una beffa che ha perso buona parte della sua amarezza. Valentini ha lavorato a 10 brevi vangeli apocrifi dotati quindi di una qualche licenza, spesso temporale, basti pensare a Gesù che inventa il calcio: anche in questi vangeli, come i veri vangeli apocrifi, vengono raccontate vicende non ufficiali, non riconosciute, si parla di un Gesù in quell’età di mezzo che va dal Bambino nella grotta fino al predicatore e dispensatore di miracoli. I dieci vangeli che compongono Vangeli Nuovissimi possiamo dividerli in due macrocategorie: i primi cinque ruotano attorno alla figura di Gesù e alle sue qualità e i restanti potremmo considerarli minori, ossia legati ad aspetti molto specifici o singoli episodi. Il tutto, però, mantenendo una forma simbiotica con il vangelo inteso come genere letterario: non mancano, infatti, le frasi idiomatiche, la suddivisione in versetti e una prosa evocativa ed educativa tipica dei testi biblici. L’autore ha costruito dei vangeli del presente per il presente e la forma vangelo stessa è uno degli aspetti che ne conferisce comicità.

Continua a leggere su LIMINA, qui: https://www.liminarivista.it/comma-22/gli-ironici-vangeli-nuovissimi/

Questa e altre recensioni del libro si possono leggere anche sul sito di Quodlibet, qui: https://www.quodlibet.it/libro/9788822906915