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Non fate mai come i cammelli

Foto di copertina: Dromedary at M’Chouneche, Biskra province, in Algeria – autore: Blackmysterieux (Ghoul Kassem Mustapha) – da: commons.wikimedia.org

L’espressione «bere come un cammello» corrisponde alla pura verità scientifica di quello che un cammello fa dopo avere attraversato il deserto anche per centinaia di chilometri ed essersi fermato, per dire, in un’oasi a bere dell’acqua. Dopo essersi molto disidratati, cammelli e dromedrari, che sono come delle specie di ultrarunner del deserto, dice Bernd Heinrich, possono bere decine e decine di litri d’acqua, un centinaio perfino, senza sentirsi male. L’uomo no. All’uomo è vivamente sconsigliato.

L’uomo, per dire, anche se non è un ultrarunner che fa le corse, se corre quaranta o cinquanta chilometri di fila cacciando le antilopi nella savana o se, per esempio, nel caso abitasse in città, gli rubano il portafogli in pieno centro storico nel mese di luglio, un luglio caldo come quello di questi giorni, e deve inseguire i ladri fino in periferia correndo per venti chilometri o trenta fino ad acciuffarli, disidratandosi molto, anche se i ladri non li ha acciuffati e sono riusciti a svignarsela all’uomo non conviene bere decine di litri d’acqua come il cammello o il dromedario, perché se no ci rimane secco. Il cammello invece no, lo può fare. È abilitato a farlo. E Bernd Heinrich ci spiega il perché.

Il segreto del dromedario, dice Heinrich, consiste nella sua grande capacità di superare il rischio della disidratazione.

Intanto c’è da dire che se ti hanno rubato il portafogli e stai inseguendo i ladri per la città, non ti conviene bere alla fine, dopo che li hai acciuffati. Sarebbe molto utile avere una borraccetta da cui bere poco alla volta a piccoli sorsi frequenti mentre corri. Così fanno anche gli ultrarunner che fanno le corse di più di cento chilometri, quei pazzi.

L’uomo che sta inseguendo i ladri a luglio per tutta la città o che caccia le antilopi nella savana, se arriva a perdere più del 12 per cento del suo peso corporeo in acqua rischia di schiattare. Il dromedario invece può sopravvivere a una perdita di acqua fino al 40 per cento del proprio peso corporeo. E questo è un bel vantaggio, dovendo correre a luglio per tutta la città a caccia di ladri o anche solo se stai facendo una corsa di ultraresistenza di più di cento chilometri come fanno certi pazzi.

Comunque sia, il dromedario e l’uomo hanno anche certe somiglianze, dice Heinrich. Se bevono, l’acqua arriva allo stomaco in tutti e due i casi abbastanza lentamente, e da lì raggiunge il plasma sanguigno. Il dromedario però, se beve tanto, ha un sangue diverso. Il dromedario infatti riesce a sopportare una diluizione del sangue che altri mammiferi, come l’uomo, non sopportano. E così all’uomo, a differenza del dromedario, capita che se beve troppo e troppo in fretta i globuli rossi si gonfiano fino quasi a scoppiare e l’uomo appunto, come si è detto, ci rimane secco. Il dromedario no. Ecco perché non bisogna mai fare come i dromedari o come i cammelli.

La differenza tra un cammello e un dromedario è risaputa. Il cammello ha due gobbe, il dromedario una. Per il resto si somigliano moltissimo e potremmo anche chiamarli con lo stesso nome senza sbagliare.

A parte questa faccenda del bere, ci sono alcune cose che favoriscono il cammello in caso del furto di portafogli in pieno luglio nel centro città. E hanno tutte a che fare con il fatto di evitare intelligentemente la disidratazione. Sono tutte cose che riguardano la fisiologia e che l’uomo non può imparare. Il cammello insomma parte avvantaggiato e noi non ci possiamo fare niente.

La prima cosa, abbiamo detto, è il sangue. Sia nel dromedario che nell’uomo il plasma sanguigno, dice Heinrich, contiene circa il 16 per cento dell’acqua presente nel corpo. Ma quando si disidrata il sangue del cammello perde solo l’un per cento del suo volume. L’uomo invece ne perde tre volte di più. Quello che succede è che il sangue dell’uomo, con la disidratazione, diventa viscoso perché, il numero di globuli rossi rimane invariato. Il cuore si affatica, non è più capace di dissipare il calore portandolo in superficie, ed ecco che avviene il colpo di calore che può risultare fatale.

La seconda cosa è l’urina. Quella del cammello è diversa. Noi abbiamo un’urina abbastanza liquida, quella del cammello è più concentrata. Questo vuol dire che con meno liquido il cammello espelle più rifiuti. Piscia di meno ma con più efficienza, diciamo così.

Capisco che se stai inseguendo un ladro per la città da 25-30 chilometri non ti puoi certo permettere di fermarti sul lato della strada a far la pipì: il ladro scappa. Ma secondo me se stai inseguendo le antilopi nella savana da circa cinquanta chilometri una pisciatina sul tronco di qualche albero prima o poi ti fermi a farla e se sei un ultrarunner che sta facendo una gara di più di cento chilometri secondo me ne metti in conto almeno due o tre.

Navy Petty Officer 1st Class David Goggins crosses Death Valley alongside French competitor Albert Vallee in the Badwater Ultramarathon in 2007 – By Seaman Michael Lindsey, USN – http://www.defense.gov/news/newsarticle.aspx?id=46876, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17547068

Per quel che riguarda la terza e la quarta caratteristica fisiologica del cammello c’è però da dire che l’uomo, grazie al raziocinio, alla tecnica, all’attività manifatturiera e alla ben nota dote dell’indice opponibile qualche contromisura può prenderla. In questi casi si può anche imparare qualche utile trucco dal cammello.

La terza dote è infatti la gobba. Che, come sappiamo più o meno tutti, non contiene acqua ma una riserva di grasso. La gobba del dromedario è un importante magazzino di cibo e durante il lungo attraversamento del deserto può anche ridursi della metà o più, perché il dromedario la consuma per ottenere energia. Anche se non trova da ruminare delle erbe o delle piante spinose, insomma, nel deserto il dromedario se la cava soprattutto grazie alla gobba.

Nessun uomo ha in dotazione una gobba fatta di grasso che lo nutre. Ma colui che sa di potere essere rapinato per strada dovrebbe sempre portarsi appresso uno zainetto sulle spalle con qualche barretta energetica, la borraccia con l’acqua e un paio di tramezzini. Esattamente come se fosse la gobba del dromedario. Tra l’altro, anche lo zainetto, man mano che uno mangia, si riduce e si alleggerisce. Il funzionamento pratico insomma, al netto delle evidenti differenze esteriori, non è poi dissimile.

Inoltre sarebbe opportuno che l’uomo a cui hanno rubato il portafogli avesse molti capelli. Se è calvo come me, l’esposizione della pelle al sole risulta eccessiva. E dunque la sudorazione. E dunque la disidratazione. Uno calvo come me dovrebbe sempre indossare un cappellino quando va in giro per il centro storico in pieno luglio e mette in conto che potrebbero anche rubargli il portafogli. Meglio ancora se al cappellino è attaccata una visiera e, dietro, una striscia di tela bianca che gli copra il collo fino alle spalle, come uno dei due signori della foto di prima. Più si ripara dal sole, meno liquidi disperde e più riduce la disidratazione.

Ne sa qualcosa il cammello che, come quarta dotazione, naturale, fisiologica, ha tutte le parti direttamente esposte al sole o riparate dalla gobba o da un pelo piuttosto lungo. Lì dove invece il sole non batte il pelo è corto o addirittura assente.

E questo è tutto, più o meno, anche se qualcosa la dimentico di sicuro e non è detto che abbia riferito le cose correttamente. Non un sono un uomo di scienza, d’altra parte, e nemmeno un ultrarunner.

Ma comunque la metti, pur con tutte le precauzioni del caso, una cosa è certa: che se ti metti a correre contro un cammello in pieno deserto, anche se il cammello non è un animale particolarmente veloce e corre in modo sgraziato, alla lunga perdi di sicuro. E se non perdi rischi la vita, anche se sei uno che per lavoro caccia le antilopi nella savana e sei dunque molto allenato.

Ne sa qualcosa quel cavallo che, a quanto racconta Heinrich, un giorno ha corso contro un cammello in pieno deserto. Alla fine ha vinto per un soffio ma il giorno dopo è morto perché era sfinito, mentre il cammello aveva perso, seppure di poco, ma il giorno dopo stava benissimo. Anzi, il cammello ne sa qualcosa ma il cavallo non ne sa niente. Appunto, è morto.

Per avere notizie su Correre. Una storia naturale di Bernd Heinrich, vai qui: https://www.pianobedizioni.com/libri/correre-una-storia-naturale/

Per leggere altri articoli su Bernd Heinrich presenti in quest blog, vai qui: https://www.mariovalentini.net/category/due-o-tre-cose-che-bernd-heinrich-ci-insegna-sulla-corsa/

Storia breve di Bazille

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L’immagine: Auguste Renoir, Frédéric Bazille, 1867 – huile sur toile – 105 x 73,5 cm. (Musée Fabre, Montpellier.)

Il libro: Théodore Duret, Gli impressionisti e il loro mercante, Editrice Bietti, Milano, 1946

La scorsa settimana, da buon turista in visita a Parigi, non ho potuto fare a meno di visitare il Museo d’Orsay. È lì che mi sono imbattutto in un dipinto che ritraeva Renoir da giovane, eseguito da Frédéric Bazille.

Il ritratto è questo

Frédéric Bazille, Ritratto di Auguste Renoir, 1867 – olio su tela (Musée d’Orsay, Paris)

Fa il paio con quello che ho messo in copertina, che è invece stato realizzato da Renoir e ritrae proprio Frédéric Bazille al lavoro su una delle sue tele più note, L’airone.

Di Renoir avevo in mente un racconto che fa il mercante d’arte Ambroise Vollard. Lo descrive ormai grande, molto malato, quasi del tutto impossibilitato a muovere gli arti, mentre si fa legare alle mani i pennelli per potere continuare a dipingere.

Qui invece è giovane e sfrontato. Il dipinto è del 1867. Renoir ha 26 anni, come il suo amico Bazille che lo ritrae e che, a sua volta, Renoir ritrae proprio in quell’anno. La posa e l’esecuzione sono incredibilmente libere, del tutto anticonvenzionali, perfino in confronto con la ritrattistica ben poco paludata dei nuovi pittori francesi del periodo. È l’opera di un giovane pittore di grande talento, quale Bazille effettivamente era.

Gli impressionisti, in questi anni, non sono ancora gli impressionisti. Sono già un gruppo molto coeso e solidale di artisti, che elabora idee comuni sull’arte, in contrasto con l’accademia. Ma non hanno mai esposto in pubblico come gruppo. Faticano da matti a affermarsi e sono sempre squattrinati perché non riescono a vendere i loro quadri. Si riuniscono spesso al Cafè Guerbois, sotto l’ala tutelare di Édouard Manet, di una decina d’anni più grande di loro. Oltre a Claude Monet, Sisley, Cézanne, Pissarro, gli stessi Renoir e Bazille, frequentano quel caffè e quelle riunioni anche diversi scrittori e intellettuali, come Émile Zola e il fotografo Félix Nadar.

Dovranno passare ancora sette-otto anni, bisognerà superare la guerra franco-prussiana, la Comune e l’assedio di Parigi prima che gli impressionisti diventino a tutti gli effetti gli impressionisti, cioè un movimento che si presenta sulla scena parigina compatto. Invece di trarne un vantaggio economico, la scelta procurerà loro irrisione, sbeffeggiamenti, ulteriore marginalità. Li taglierà fuori ancora di più dal mercato dell’arte. Chi si sporcherà le mani con gli impressionisti, come ad esempio Zola, si brucerà, venendo perfino licenziato dal giornale su cui ha tessuto le lodi del movimento. Chi proverà a commerciare le loro opere, come Paul Durand-Ruel, il loro principale mercante, precipiterà a un passo dal fallimento.

È dunque il 15 aprile del 1874 quando, presso lo studio di Félix Nadar in Boulevard des Capucines n.35, viene inaugurata a Parigi la prima esposizione collettiva del gruppo, considerata l’atto di nascita ufficiale dell’impressionismo. Ma Frédéric Bazille non c’è più. Lui, che di quel movimento era stato uno dei membri principali e fondativi, di fatto non l’ha mai visto davvero nascere, l’impressionismo.

35 boulevard des Capucines, Paris 2nd arr. dove c’era l’Atelier del fotografo Nadar

Vita breve di Bazille

Trovo un bel profilo di Bazille su un vecchio libro che apparteneva a mio padre, scritto da un testimone di quegli anni, che è stato uno dei primi e principali storici dell’impressionismo francese e che frequentava gli incontri del Cafè Guerbois:Théodore Duret.

Dice Duret: «Poco si è scritto per ricordare la luminosa figura di questo pittore, mancato troppo giovane alla promesse che la morte gli impedì di mantenere».

Nato a Montpellier nel 1841 da una famiglia benestante, destinato per dovere familiare a una carriera da medico, si trasferì a Parigi proprio per studiare medicina. Ma non ne aveva né la passione né il talento. Aveva piuttosto da sempre coltivato la passione per l’arte. Era il 1959 e, mentre portava avanti alla meno peggio e senza alcun entusiasmo gli esami universitari, cercò uno studio in cui continuare a impratichirsi con la pittura, e andò a finire nell’atelier di Gleyre. Dopo qualche anno di vita piuttosto solitaria e malinconica, senza frequentazioni significative né presso la facoltà di medicina né nel giro degli artisti, qualcosa di decisivo succede quando capita nello stesso corso di Claude Monet, frequentato anche da Renoir e Sisley. Stringe subito amicizia con Monet e di questa nuova amicizia parla con entusiasmo nella frequente corrispondenza che continua a intrattenere con la famiglia.

Intanto Monet, dopo l’ennesimo violento scontro con il maestro Gleyre, decide di abbandonare lo studio. Bazille, Sisley e Renoir lo seguono a ruota.

Monet si trasferisce a Honfleur per dipingere all’aria aperta, a contatto con la natura, secondo quella che è la nascente, nuova pratica degli impressionisti. Invita a più riprese Bazille a raggiunerlo. Alla fine Bazille molla tutto e lo raggiunge. Quando rientra a Parigi per sostenere gli esami universitari, colleziona una serie di bocciature. È la volta buona. Anche il padre, dopo aspre discussioni, finalmente se ne convince. Bazille abbandona gli sudi.
È il 1865 e finalmente Bazille può vivere come vuole. Con Monet prendono in affitto un appartemento dietro la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, al n. 6 di rue de Furstenberg, proprio un piano sopra a quello che fino al 1863 era stato lo studio di Delacroix, e dove oggi si trova il museo a lui intitolato. Lavorano fianco a fianco tutto il giorno. Escono quasi sempre assieme. È in quei giorni che conoscono Édouard Manet e, qualche tempo dopo, anche Gustave Courbet.

Bazille ritrae lo studio di rue de Furstenberg, dove intanto Monet lavora alla sua Colazione sull’erba, in questo dipinto

Frédéric Bazille, Atelier de la rue Furstenberg, Huile sur toile, 80 × 65 cm, (Musée Fabre, Montpellier)

Scrive Duret di Bazille: «Si giudicava sempre con molta severità – benché Pissarro dicesse che era il più dotato di tutti – e non esitava a rifare da principio un quadro che non lo soddisfaceva».

Rispetto a Monet e Renoir lavorava più in studio, impostava il dipinto a matita prima di lavorare con i colori, strutturava e definiva più nettamente le figure.

È il 1867, l’anno dello scambio di ritratti con Renoir. Quello di Bazille realizzato da Renoir viene dipinto durante un soggiorno sulle rive della Senna in compagnia di altri impressionisti. Viene regalato a Manet.

Scrive Duret: «Nella piccola comunità di amici la miseria aumenta. I colori costano caro, le tele altrettanto. C’è poi l’affitto da pagare, c’è da provvedere al cibo quotidiano. Bazille è il più ricco della comitiva e appena può aiuta tutti. All’epoca in cui Monet non trovava acquirenti per le sue tele, gli acquistò per 2.500 franchi Dame in giardino».

Bazille intanto realizza alcuni dei suoi principali lavori, che Duret considera veri e propri capolavori, tra cui Riunioni di famiglia.

In seguito prende in affitto un nuovo appartamento, in rue de Visconti, non lontano da rue de Furstenberg. Qui dá ospitalità prima a Monet, poi allo stesso Renoir, che erano rimasti senza casa, impossibilitati a permettersi un affitto.

Nel 1869, a 27 anni, dipinge quello che Duret considera il suo quadro più bello: Veduta del villaggio.

Arriva il 1870 e la Francia precipita nella guerra contro la Prussia. Gli impressionisti si disperdono. Chi si rifugia a Londra, chi in Provenza. Nell’incomprensione e tra le critiche di tutti i suoi amici, Bazille decide di arruolarsi subito come volontario, nel corpo degli zuavi, uno dei più pericolosi.

Racconta Duret: «Il 25 novembre cadde, durante l’assedio di Beaume la Rolande. I suoi compagni lo trasportarono fuori della mischia e lo stesero su un prato accanto al limpido gorgogliare di un ruscello, intuendo che la fine era prossima e che sarebbe mancato loro il tempo di trasportarlo fino all’ambulanza. In piena lucidità di mente il ferito parlò della sua famiglia con affettuoso rimpianto, distribuì tra i camerati il denaro che aveva, e spirò dopo appena due ore, senza nemmeno entrare in agonia».

E conclude: «L’arte non conosce generazioni spontanee. Dire che Frédéric Bazille non si riallacciasse a nessun artista precedente sarebbe un’inesattezza, dire che la sua arte fu una mistione delle opere di Manet e di Monet dimostrerebbe una totale ignoranza delle sue opere».

James Abbott McNeill Whistler, Ritratto di Theodore Duret, 1883 (Metropolitan Museum of Art, New York)

Per visitare la pagina del Musée Fabre di Montpellier dedicata a Bazille puoi entrare qui: https://www.museefabre.fr/bazille

Qui invece la pagina del Musee D’Orsay dedicata al Renoir di Bazille: https://www.musee-orsay.fr/it/opere/pierre-auguste-renoir-63

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Miles Davis dei fotografi

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Il disco: Miles Davis, Tutu, Warner Bros 1986

Il libro: Arrigo Polillo, Jazz, nuova edizione aggiornata a cura di Franco Fayez, Mondadori, 1997

Le immagini: fotografie di Irving Penn per l’LP Tutu

Nel suo Jazz, grande classico uscito nel 1975 e poi, in edizione accresciuta, nel 1982, Arrigo Polillo riserva alla musica degli anni ’70 di Miles Davis, quelli della cosiddetta svolta elettrica, qualcosa di più che una netta stroncatura.

Emette giudizi quasi sprezzanti, come in questo passaggio: “dopo il 1970 il trombettista ha seguito inesorabilmente la logica del mercato a cui ha deciso di adeguarsi”. E poi: “si è allontanato sempre più dal jazz per fare del rock grossolanamente effettistico, monotono e informe, che gli ha attirato giudizi molto duri da parte della stragrande maggioranza dei critici, dei musicisti e dei cultori del jazz”. E ancora: “ha continuato a produrre musica quasi sempre più scadente, riducendo al minimo le proprie prestazioni di strumentista ormai arrochito e insignificante”. E per finire: “riesce difficile accettare il suicidio artistico di Miles Davis e rinunciare del tutto alla speranza di una sua resurrezione”.

Quando, nel 1997, Franco Fayenz ha curato un’ulteriore riedizione di Jazz, ha anche scritto un aggiornamento di quasi cento pagine nel quale si è trovato a contraddire con il tatto dovuto i netti giudizi negativi di Polillo sul Miles Davis del periodo successivo a Bitches Brew, ultimo album al quale il critico riconosceva una qualche dignità. E forse è a completare il risarcimento che per la copertina dell’edizione del 1997 è stata scelta una bellissima foto di Miles Davis scattata da Aaron Rapoport proprio nel 1970.

Fayenz scrive: “In verità, dal 1982 fino a due mesi prima della morte (Santa Monica, California, 28 settembre 1991) i suoi concerti e i suoi dischi furono un crescendo di episodi affascinanti e indimenticabili, di grande musica e di alcuni capolavori”. E continua: “E poi c’era il suono di quella tromba, diventato ormai siderale, cosmico, capace di suscitare emozioni indelebili con una sola nota e di valorizzare le pause in un modo mai udito prima”.

Tutu, un LP del 1986, è uno dei primi dischi di musica jazz che ho comprato. Dovevo avere 17-18 anni. Si tratta del primo album pubblicato da Miles Davis per la Warner Bros. Al di là del valore musicale, ha una copertina che è un capolavoro. Riproduce alcune meravigliose foto scattate a Miles Davis dal grande fotografo americano Irving Penn, su incarico della Warner Bros, proprio per l’uscita dell’album. Gli scatti vennero fatti nello studio di Irving Penn, a New York, il 1 luglio 1986.

Irving Penn ha raccontato quella giornata di lavoro molti anni dopo, nel 2004, in un’intervista a Vogue, che si può leggere per intero qui:
https://www.vogue.com/article/vd-remembering-irving-penn-the-stranger-behind-the-camera

Miles Davis era arrivato nel suo studio accompagnato da un parrucchiere, con il suo solito atteggiamento scostante. “Quando entrò provai a parargli, ma mi ignorò del tutto”, racconta Irving Penn. Dopo avere sistemato la sua acconciatura Miles Davis si mise davanti alla macchina fotografica. “Scommetto che vuoi che mi tolga la maglietta”, disse. “Sì”. “E scommetto che vuoi che mi tolga anche tutte queste catene d’oro”. “Sì”.

Lo sessione di lavoro durò circa un’ora. Alla fine Irving Penn lo ringraziò. Miles Davis non disse niente, gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla bocca. Irving Penn rimase lì senza sapere che dire. Poi si strinsero la mano e Miles Davis se ne andò.

Irving Penn non aveva mai ascoltato niente di Miles Davis. Solo dopo quegli scatti cominciò a seguire la sua musica. Ma racconta nell’intervista che non ebbe più modo di incontrarlo per dirgli che la trovava, in qualche modo, affine alla migliore arte visiva ed estremamente interessante e profonda.

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Tavole contro la guerra

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Negli anni della Repubblica di Weimar George Grosz ha collezionato un discreto numero di processi. Sul banco degli imputati era quasi sempre in compagnia di Wieland Herzfelde, editore della casa editrice Malik-Verlag che pubblicava i suoi lavori.

Wieland Herzfelde era il fratello di John Heartfield, artista celebre per i suoi fotomontaggi, che con Grosz fu tra i principali esponenti del movimento dadaista berlinese. I tre nei primi anni venti militarono nel partito comunista tedesco e diedero vita a un gran numero di riviste, ognuna delle quali durava appena qualche numero per poi venire presto sequestrata e messa al bando dalle autorità. Molte delle copertine di quelle riviste erano illustrazioni di Grosz. Dallo spiccato piglio antimilitarista, le illustrazioni denunciavano la feroce repressione anticomunista e la violenza di un blocco di potere che, nonostante la sconfitta del primo conflitto, aveva ancora una gran voglia di guerra. Denunciavano la convergenza di interessi tra generali, grande industria, governo socialdemocratico e Chiesa.

Grosz subisce il primo processo nel 1920, per le nove litografie della cartella Gott mitt uns. L’accusa è quella di oltraggio alle forze armate.

Il secondo processo gli viene intentato per oscenità nel 1923, dopo la pubblicazione con la Malik-Verlag delle ottantaquattro litografie, con sedici riproduzioni a colori, dell’Ecce Homo.

Il terzo processo risale al 1928. L’accusa è quella di balsfemia. La cartella incriminata si intitolava Hintengrund.

Le tavole confluite nella cartella della Malik-Verlag facevano parte dei lavori realizzati da Grosz per le scene dello spettacolo Il buon soldato Schwejk, messo in scena a Berlino da Erwin Piscator nel gennaio 1928 e tratto dal capolavoro di Hašek.

Il dibattimento, tra condanne e ricorsi, durò circa tre anni e ebbe vasta eco. Inizialmente era incentrato su tre tavole. Ma presto si concentrò solo su una di queste, la numero 10, raffigurante un Cristo con la maschera antigas. La tavola riporduceva in calce la scritta: «Sta’ zitto e continua a servire!».

Il processo si chiuse il 5 dicembre 1931, quando la Corte suprema del Reich ordinò il sequestro e la distruzione della piastra per la riproducibilità, appunto, della tavola n.10. Pare che nel frattempo Herzfelde, in attesa che la sentenza definitiva venisse pronunciata, avesse aperto le casse sigillate contenenti le piastre e avesse fatto fare numerose riproduzioni delle tavole sottoposte a processo.

Alla fine dunque sul banco degli imputati era rimasto solo il Cristo con la maschera antigas. L’intero dibattimento si era incentrato sulla frase scritta ai piedi della croce. A chi andava attribuita? La pronuncia Cristo o viene detta contro di lui? La faccenda, asserivano le parti in causa nel corso del processo, cambia del tutto, al fine di definire il contenuto blasfemo o meno della tavola. Questo Cristo è strumento dei generali e manda in guerra la popolazione esortandola al sacrificio della propria vita o subisce la guerra diventando anche lui vittima sacrificale di poteri più grandi, che lo annientano come un qualsiasi soldato mandato al fronte?

Per le notizie riportate in questo breve pezzo si rimanda ai seguenti lavori:

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La Venere dopo le ceneri

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Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci , 2024, piazza del Municipio, Napoli.

Opera molto nota di Michelangelo Pistoletto, la Venere degli stracci risale al 1967. Si tratta di una riproposizione della Venere con la mela (1813–1816) di Berte Thorvaldsen, alla cui bellezza classica e intangibile viene affiancato un cumulo di stracci.

Ne sono state realizzate da allora molte versioni, custodite in diverse collezioni: alla Tate di Liverpool, al Castello di Rivoli, oltre che al MADRE di Napoli.

La Venere del Maschio Angioino

Questa ulteriore versione, che si potrà vedere probabilmente solo fino a fine giugno 2024 sempre a Napoli, in piazza del Municipio, dalle parti del Maschio Angioino, ha dimensioni monumentali e una storia già molto lunga e travagliata.

Acquistata dal Comune di Napoli, era stata collocata a piazza del Municipio il 28 giugno 2023, tra qualche polemica, notevole incomprensione circa il suo valore e significato e nemmeno troppi onori di cronaca. Ma il 12 luglio 2023, esattamente due settimane dopo l’inaugurazione, alle cinque del mattino, un incendio doloso l’aveva distrutta e la Venere napoletana era improvvisamente diventata argomento di articoli e discussioni sulla stampa nazionale e estera. Il rogo di cui era stata oggetto, insomma, aveva incendiato il dibattito pubblico.

Si era subito pensato a un gesto intimidatorio, poi all’atto vandalico di una baby-gang, molti artisti e personaggi pubblici avevano solidarizzato con Michelangelo Pistoletto, il quale aveva dichiarato: “La distruzione della Venere degli stracci non mi stupisce. Mi spaventa perché mi mette davanti a una situazione drammatica del nostro tempo. Un tempo in cui si continua a rispondere a qualsiasi proposta di bellezza, di pace e di armonia con il fuoco e con la guerra. Mi sembra quasi l’eco di quel che sta succedendo nel mondo dove c’è gente che dà fuoco da tutte le parti”. E poi: “Ci sono fuochi ben più gravi, ben più pericolosi che consumano la vita delle persone. Questa Venere rappresenta la rigenerazione, rappresenta la possibilità che ci sia armonia tra gli estremi, ovvero la bellezza e la brutalità. Purtroppo vediamo che la brutalità riemerge continuamente”.

L’autore del rogo era stato individuato e rintracciato nel giro di un giorno, grazie alle telecamere di sorveglianza presenti nell’area: si trattava di un clochard con problemi mentali. Uno abituato a frequentare lo squilibrio più che l’armonia, insomma, gli stracci più che la divina bellezza.

Ai primi di dicembre del 2023 il clochard è stato condannato a quattro anni di reclusione e al pagamento di una multa di quattromila euro. Anche questa condanna ha sollevato molte polemiche, essendo parsa a molti troppo pesante, eccessiva.

La Venere dopo le ceneri

Essendo del tutto irrecuperabile, Pistoletto ha rifatto l’opera utilizzando materiali ignifughi e l’ha donata gratuitamente alla città di Napoli. I soldi del crowdfunding raccolti per la sua ricostruzione sono stati devoluti a progetti sociali destinati a persone affette da disabilità intellettiva e a donne in regime di detenzione.

Io ho fatto in tempo a vederla qualche giorno fa in piazza Municipio, mentre portavo a spasso per Napoli sessantatre ragazzini e ragazzine in viaggio d’istruzione. È stata una visione fugacissima, quei ragazzini mi tiravano verso via Toledo, dove volevano andare al più presto a far compere. E verso la meta assoluta e prepotente dei loro desideri: la piazza dei quartieri spagnoli con il murale di Maradona. Non saprei dire dunque se è vero quel che dicevano alcuni detrattori dell’opera: che risulterebbe “sbagliata” perché fuori scala sarebbe il rapporto dimensionale tra la Venere e gli stracci.

A fine giugno 2024 la Venere dovrebbe essere spostata nella Basilica di San Pietro ad Aram, tra Forcella e Napoli Centrale. Saranno i giovani del progetto Policoro a prendersene cura e a guidare i visitatori alla scoperta dell’opera. Tra questi, c’è anche l’intenzione di coinvolgere il clochard autore del rogo dell’anno scorso.

La nuova collocazione produrrà, di fatto, un definitivo slittamento di senso della Venere, facendola diventare una sorta di opera sacra. Anche la Basilica che la ospiterà cambierà nome, se ho ben capito, e dunque verrà investita anch’essa di una nuova significazione, diventando la Cattedrale della Carità. Il rischio è che la dea pagana, entrando in chiesa, con un ulteriore scarto di senso, si converta e diventi quasi una madonna cristiana, protettrice dei poveri.

Ma questa è una storia non ancora scritta, di cui nulla si può dire. Prerogativa di tanta arte contemporanea è il gioco di relazioni che si instaura con lo spazio e con il contesto, e che genera significato in una sorta di continua riscrittura che rende le opere non definite in sé ma porose agli eventi e agli accidenti. La Venere napoletana di Pistoletto sembra destinata a diventare quasi un caso esemplare di questo caratterisco procedimento o processo.

Le notizie sulle vicende napoletane della Venere degli stracci le ho tratte per lo più dai seguenti articoli: https://www.artribune.com/attualita/2023/07/venere-stracci-opera-sbagliata/, https://www.quotidiano.net/napoli/venere-stracci-condanna-clochard-jk6v10w8, https://www.doppiozero.com/la-venere-degli-stracci-restituita, https://www.ilsole24ore.com/art/la-venere-stracci-pistoletto-ritorna-napoli-AFSe9QxC

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Corpo felice

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un’opera e un libro

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Pierre-August Renoir, “La baigneuse blonde”, oil on canvas, 90×63 cm,  1882, Pinacoteca Giovanni e Mariella Agnelli di Torino.

Roberta Scorranese, “A questo serve il corpo”, Milano, Bompiani, 2023

“Questo corpo felice appartenne ad Alice Charigot, compagna e poi moglie dell’artista: la pienezza delle forme sembra tutt’uno con le onde dei capelli sciolti e con quelle del mare della baia di Napoli, sullo sfondo. Il corpo della bagnante bionda è felice perché sembra nato per esistere in quel momento, in quel posto, in quella donna. È il prolungamento di un orizzonte e abita in luogo con la naturalezza di un arbusto spontaneo. Nulla sembra sbagliato in un corpo felice: i chili di troppo, le rughe, la magrezza eccessiva cancellati dalla disinvoltura con cui è abitato”.

(Roberta Scorranese, “A questo serve il corpo”, Milano, Bompiani, 2023)

L’opera: “La baigneuse blonde” appartiene a una fase successiva al celebre periodo impressionista. Negli anni ottanta infatti, approfondendo lo studio dell’arte antica e in particolare di Raffaello, Renoir definisce con maggiore precisione il contorno delle figure, sullo sfondo di uno spazio circostante che rimane invece ancora di matrice impressionista.

Il libro: il libro della Scorranese, giornalista che si occupa di arte figurativa sulle pagine del Corriere della Sera, è un interessante esempio di come si possa coniugare in maniera equilibrata riflessione sull’arte e narrazione. Si tratta di un percorso sul tema del corpo (soprattutto femminile) per come è stato messo a tema nell’arte antica e contemporanea di tradizione occidentale.

Per altre notizie sul dipinto vai qui: https://www.pinacoteca-agnelli.it/collezione/la-baigneuse-blonde/

Per altre notizie sul libro vai qui: https://www.bompiani.it/catalogo/a-questo-serve-il-corpo-9788830105713

Per altre sotto_lineature vai qui: https://www.mariovalentini.net/guerra/

Guerra

sotto_lineature – un’opera e un libro

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«Se me lo raccontavano non ci avrei mai creduto. Adesso non camminavo manco troppo male, insomma duecento metri alla volta. Era abominevole dovunque come sofferenza, da sotto il ginocchio fino a dentro alla testa. A parte questo, l’orecchio era poltiglia sonora, le cose non erano affatto più le stesse né più come prima. Sembravano di mastice, gli alberi non stavano mai fermi, la strada sotto le scarpe faceva salite e discesette. La giubba e la pioggia, non avevo più nient’altro addosso. E sempre nessuno. La tortura alla testa la sentivo fortissimo nella campagna così grande e vuota. Mi facevo quasi paura da solo ad ascoltarmi».

( Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, 2023)

L’opera: esposto nell’estate del 1920 alla  Prima mostra internazionale dada organizzata nella galleria antiquaria di Otto Burchard a Berlino, Mutilati di guerra – con autoritratto di Otto Dix è stato tra i quadri messi alla gogna nel 1937 nell’esposizione nazista dell’arte degenerata. Oggi risulta disperso.

Il libro: romanzo inedito di Céline, composto di duecentocinquanta fogli manoscritti e ritrovato di recente, Guerra è stato pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 2022 e in Italia, da Adelphi, nel 2023. Narra episodi contemporanei a quelli raccontati nella prima parte di Viaggio al termine della notte e ripercorre dunque l’esperienza al fronte durante il primo conflitto mondiale.

Gli uomini di Kanafani in fuga dalla Palestina

Pubblicato su minima&moralia (https://www.minimaetmoralia.it/wp/) una decina di anni fa, ripropongo qui il primo di una serie di articoli che avevo scritto sui narratori arabi contemporanei. Un articolo dedicato al grande scrittore palestinese Ghassan Kanafani e al suo romanzo Uomini sotto il sole. Molto è cambiato oggi, a guerra in corso, con la Striscia di Gaza ormai ridotta in macerie e il popolo palestinese prostrato dalle morti e dalla devastazione. Alcuni passaggi li scriverei del tutto diversi, è chiaro. Eppure penso che l’articolo da diversi punti di vista ancora qualcosa possa dirla, se letto in prospettiva. Consiglio, a chi fosse interessato, di entrare sul link della pubblicazione del 2013. Qui: https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/scrittori-arabi-contemporanei/. Tra i commenti si possono infatti trovare molti suggerimenti e consigli bibliografici di lettori molto più esperti di me su autori palestinesi e arabi in genere.

(6 Dicembre 2013)

Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani l’ho trovato a due euro in una libreria dell’usato ed è forse questo che me lo rende un po’ glorioso: il fatto che (almeno ai miei occhi) sia un ritrovamento e, in un certo senso, anche un libro sopravvissuto. Scritto nel 1963, la sua traduzione in italiano risale al 1991: poca o nulla speranza di trovarlo a scaffale in qualsiasi altro tipo di libreria.

Personalmente ho questo vizio. Se comincio a appassionarmi a qualcosa, ad esempio un autore i cui libri non si trovano più in giro,di quell’argomento divento una specie di fanatico fissato. È successo così per autori italiani come Bianciardi o Manganelli, di cui negli anni ’90 non si trovava quasi niente in commercio: per circa tre o quattro anni ho raccattato di tutto, scovandone i libri nei posti più impensati. Poi, pur continuando ad ammirarli, quando alcune case editrici hanno cominciato a ristamparne i volumi sono guarito e la mia fissazione per questi autori si è notevolmente calmata.

Kanafani è considerato uno dei maggiori scrittori palestinesi del ‘900. Rifugiatosi in Libano nel 1948 in seguito a quella prima guerra arabo-israeliana che gli arabi chiamano “la catastrofe”, ha poi vissuto in Siria e in Kuwait. Attivista del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina è stato assassinato nel 1972.

Uomini sotto il sole racconta il tentativo disperato di passare una frontiera, in pieno agosto, in mezzo a zone quasi desertiche, da parte di tre uomini in fuga dalla Palestina occupata e all’inseguimento di un futuro un po’ più dignitoso da assicurare a sé e alle proprie famiglie. Si tratta della frontiera tra Iraq e Kuwait, nei pressi di Basra (Bassora), in quella zona in cui le acque di Tigri e Eufrate proseguono ormai congiunte verso il Golfo Persico attraverso un esteso braccio d’acqua noto con il nome diShattel-‘Arab. Il romanzo racconta delle contrattazioni intavolate da tre palestinesi (Abu Qais, Asad e Marwàn) con uomini senza scrupoli che vendono loro la possibilità di passare in Kuwait da clandestini. E che, lo sanno gli stessi clandestini, con ogni probabilità li abbandoneranno in mezzo al deserto. L’esito è tragico: i tre faranno la fine dei topi, cotti a vivo dal sole incandescente nel chiuso di un’autocisterna vuota d’acqua in cui erano stati nascosti. Verranno così abbandonati di notte per strada, vicino a un deposito di spazzatura, proprio come può accadere nel Canale di Sicilia ai migranti di oggi, che muoiono per il sole e per la sete e i cui corpi vengono buttati fuori dai barconi a gonfiarsi d’acqua.

Uomini sotto il sole è libro essenziale e potente, di un realismo asciutto ma che ha una sua particolare capacità evocativa. È davvero il racconto/paradigma di una immane catastrofe, molto al di là delle vicende storiche dei palestinesi a cui il libro si riferisce: oltre a una catastrofe già consumata, insomma, ne sa raccontare tante altre a venire. Ma se è inevitabile che rievochi fatti realmente avvenuti e che continuano a ripetersi ancora oggi in aree geografiche contigue a quelle del romanzo, a leggerlo vengono anche in mente libri del tutto estranei, per geografia per lingua e per vicende narrate, al contesto arabo. Nella prefazione all’edizione italiana Vincenzo Consolo accostava ad esempio Kanafani a Hemingway, Faulkner o Steinbeck, penso per la sua capacità di collocare le vicende narrative nel cuore della Storia e dei maggiori conflitti politici che la attraversano. A me, invece, il libro ha ricordato soprattutto quei bellissimi racconti di Juan Rulfo raccolti in un volume dal titolo La pianura in fiamme.

È un accostamento molto opinabile, e forse del tutto incongruo, e appunto per questo particolarmente utile a farci su qualche buona pensata.

È innanzi tutto il titolo a stabilire una parentela tra i due libri. L’arida pianura dei racconti di Rulfo è in fiamme per l’arsura del clima e perché incendiata da una sorda violenza, della cui origine non si riesce nemmeno a recuperare memoria ma che pervade tanto le relazioni intime e private dei protagonisti quanto quelle pubbliche. Una violenza che sembra impastata con la terra stessa che gli uomini di Rulfo calpestano. I personaggi di Juan Rulfo sono eterni camminanti, quasi tutti uomini in fuga. Per lo più a causa di un crimine privato commesso o subito. Anche i personaggi di Rulfo attraversano terreni ostili, bruciati dal sole, spazzati da un vento asciutto, tra sterpi secchi e massi polverosi, di notte o di giorno, alla ricerca di una via di salvezza che è sempre irraggiungibile. Hanno dentro quella fibrillazione disperata che è propria degli animali braccati, ormai chiusi in un angolo, definitivamente in trappola.

E in una trappola vanno proprio a finire gli uomini di Kanafani, sotto il sole di quell’altra regione semidesertica, a mezzogiorno, in pieno agosto. Anche in questo caso c’è una pianura in fiamme per clima e violenza. Solo che qui la violenza ha una radice storica. Se ne possiede una memoria chiara e sarebbe (o sarebbe stata) perfino evitabile. Non è ancestrale e cieca, come avviene in Juan Rulfo (talmente cieca e ambigua da tollerare perfino che si travesta, in alcuni tra i più bei racconti dello scrittore messicano, di un’ironia beffarda). In Kafanani inoltre la violenza non è impastata alla terra: piuttosto la invade sopraggiungendo dall’esterno, e viene a inaridirla.

In Uomini sotto il sole le vicende che narrano il tentativo di passare la frontiera vengono interpolate da continui flashback: inserti con qualche lirismo che raccontano vicende appartenenti al passato dei protagonisti. Al centro di questi brani di memoria c’è quasi sempre la Palestina, i vicini di casa, il paese di origine, le famiglie abbandonate. Qui la perdita si può nominare. La violenza arriva a sconvolgere le vite ma non è stata cercata. Nel ricordo dei protagonisti la terra d’origine non significa agonia e sangue, ma ha l’odore buono delle mogli, “di una donna che si era appena lavata con acqua fresca e che gli accosta i capelli ancora umidi, coprendogli il viso”.

Il pericolo a cui va incontro ogni profugo è incastrarsi nel ricordo della propria terra perduta in una prolungata attesa che paralizza. Ed è quello di cui si accorge a un certo punto uno dei tre uomini, Abu Qais, quando decide di tentare l’avventura verso il Kuwait: “Negli ultimi dieci anni non hai fatto altro che aspettare. Ti ci sono voluti dieci lunghi anni di fame per capire che hai perduto i tuoi alberi, la tua casa, la tua giovinezza e tutto il villaggio. In questi lunghi anni la gente è andata avanti per la sua strada, mentre tu te ne stavi accovacciato come un cane in una casa miserabile. Che ti aspettavi? Che piovesse giù la ricchezza dal tetto? Casa tua? Ma quale casa tua? Un uomo generoso ti aveva detto: «Abita qui!». E dopo un anno: « Dammi metà della stanza», così hai appeso qualche sacco rattoppato tra te e i nuovi vicini. E sei rimasto accovacciato finché non è arrivato Sa’d e ha cominciato a scuoterti come si scuote il latte per fare il burro”.

Sa’d è uno di quelli che è riuscito a scappare in Kuwait e lì ha fatto fortuna. È uno di quelli che al ritorno ostentano la ricchezza acquisita contribuendo a creare il mito di un paese straniero per raggiungere il quale vale la pena affrontare qualsiasi tipo di rischio. Così, al confine, lungo lo Shattel-Arab, prima di prendere a piene mani il coraggio e provare a passare di là con qualsiasi mezzo disponibile, Abu Qais si ritrova a immaginare quell’eden di ricchezza che il Kuwait rappresenta per questi uomini. Ma è un ideale senza speranze e privo di reale forza di desiderio. Simbolicamente, sono gli alberi, quelli che gli sono stati sottratti, a rappresentare la pienezza dell’appartenenza. E il Kuwait ne è del tutto privo: “Al di là di quello Shatt, appena più in là, c’erano tutte le cose di cui era stato privato. Laggiù c’era il Kuwait… Là esisteva tutto ciò che nella sua mente era solo sogno e fantasia. Indubbiamente, laggiù esistevano cose reali fatte di pietra, di terra, di acqua e di cielo, non come quelle che gli passavano per la sua povera testa… Ci dovevano essere certo vicoli e strade, uomini e donne, e bambini che correvano tra gli alberi… No, no, alberi non ce n’erano. Sa’d, l’amico emigrato laggiù, che aveva lavorato da autista ed era tornato con soldi a palate, diceva che laggiù alberi non ce n’erano. Gli alberi stanno nella tua testa, Abu Qais, nella tua testa vecchia e stanca”.

L’uso simbolico di elementi legati alla terra e al clima (l’aridità del paesaggio, l’umidità della terra/sposa, gli alberi) sembra da sempre strutturare i racconti, in questa porzione di mondo attraversato nei secoli da mille conflitti. Le storie sembrano segnate sul territorio e attraversando il territorio non puoi che ascoltare storie. Così, l’immagine della terra-sposa i cui capelli bagnati di acqua coprono il viso dell’uomo palestinese, posta proprio in apertura di Uomini sotto il sole, potrebbe essere la traduzione letteraria e poetica di una rivendicazione territoriale: di una terra che era sposa a quel popolo, in un legame reso sacro da un vincolo cerimoniale.

Essendo un lettore per null aaddentro a vicende mediorientali non voglio spingermi troppo in là con le considerazioni. Ma l’immagine della terra-sposa di Kanafani mi ha ricordato, per contrappasso, lo stretto legame che intercorre tra territorio e narrazione in libri sacri come l’Antico Testamento. Ne sembra quasi una risposta per le rime. Ad esempio a quel salmo famoso, il 132, in cui dell’unguento profumato scende dal capo di Aronne fino alla barba e poi all’orlo della sua veste. Come la rugiada del Monte Hermon sui monti di Sion, specifica il salmo. Che sarebbe da interpretare, secondo quanto mi aveva suggerito una volta uno studioso di cose bibliche che conduceva me e un gruppo di altri ragazzi (quando ancora eravamo ragazzi) in giro per la Palestina, proprio in chiave geopolitica. In quanto l’Hermon è il monte da cui nasce uno degli affluenti principali del fiume Giordano, che scende lungo la terra promessa come sulla barba di Aronne fino a giù, fino alla veste, irrorandola e inondandola di profumi, e dunque rendendola fertile.

Viene così in mente il ruolo che il controllo delle acque ha avuto nelle guerre arabo-israeliane, che per buona parte sono state anche guerre per la conquista e il controllo delle sorgenti che garantiscono l’irrigazione delle terre poste a valle. E la stessa rivendicazione di unità territoriale del popolo israeliano su quella terra irrigata dal fiume sembra quasi radicarsi in un siffatto passo biblico. È come se in questo legame tra narrazione e terra, le storie, anche le più antiche, venissero fatte funzionare nell’attualità in una attribuzione di senso che fa presto, un po’ troppo in fretta, ad assumere significato politico.

Portarsi Kentridge a scuola

“Dovrei portarmela a scuola”, pensavo visitando You Whom I Could Not Save, esposizione di lavori del grande William Kentridge con un’installazione site specific, realizzata apposta per gli spazi del Monte dei pegni di Santa Rosalia a palazzo Branciforte, una delle strutture architettoniche più affascinanti di Palermo. (https://www.palazzobranciforte.it/)

Palazzo Branciforte – Monte di Santa Rosalia-msu-1882 – Image: Matthias Süßen (matthias-suessen.de) Licence: license CC BY-SA via Wikimedia Commons

I magazzini dell’ottocentesco Monte dei pegni, da diversi anni diventati visitabili, sono enormi strutture in legno, alte più di dieci metri, in cui venivano depositati gli averi più poveri, lasciati in cambio di pochi soldi: materassi, lenzuola, biancheria personale. Spesso questi poveri beni familiari venivano portati al Monte allo scopo di racimolare i soldi per potere emigrare, e dunque sapendo che non sarebbero stati riscattati mai più.

Se fossero delle opere grafiche gli spazi del Monte sarebbero molto simili alle Carceri di Piranesi. Ma credo che a Kentridge queste enormi strutture lignee abbiano fatto venire in mente piuttosto la pancia di una grande nave.

Quella che ha ideato per il Monte è stata un’installazione prima di tutto sonora, lasciando intatte e vuote le scaffalature, con solo dei grandi altoparlanti che diffondevano una bellissima creazione musicale di Nhlanhla Mahlangu, composta per sette voci femminili che cantavano nelle lingue nguni dell’Africa meridionale. In una sala laterale più raccolta intanto era stato collocata una video-installazione ispirata a storie di viaggi e fughe via mare, ibridazioni e meticciamenti.

Negli altri spazi del piano nobile del palazzo come le sale espositive e la biblioteca, riprogettati da Gae Aulenti , sono stati esposti diversi lavori inediti di Kentridge, realizzati per questo evento di Palermo su vecchi fogli contabili o anche semplici libri.

Lavori realizzati su antiche carte geografiche e vecchie opere video di Kentridge , veri e propri film d’animazione fatti disegnando sulle pagine dei libri, si potevano invece vedere nella grande sala espositiva del piano terra, la Cavallerizza, dove è ospitata la collezione archeologica della Fondazione Sicilia. Tra queste opere video: “De como não fui Ministro d’Estado” (https://www.youtube.com/watch?v=nxGrazdl9WY).

Kentridge a scuola

Mi volevo portare Kentridge a scuola, dicevo. Non solo accompagnare le classi in cui insegno a visitare la mostra e l’installazione ma portare a scuola qualcosa di quell’esperienza. Era la fine di ottobre e si avvicinava la settimana di Libriamoci, ormai un appuntamento fisso per molte scuole. Una settimana interamente dedicata ai libri e alla lettura. Cercavo qualche buona idea da proporre quest’anno a studenti e studentesse e ho pensato proprio a William Kentridge: saremmo andati a visitare la mostra e poi ce la saremmo portata a scuola.

Avremmo letto pagine di alcuni libri di avventure e viaggi per nave, partenze, fughe e naufragi. Altri vecchi libri, raccattati da qualche parte, li avremmo scarabocchiati, tagliati, fatti a pezzi e ricomposti. Avremmo recuperato vecchie carte geografiche ormai dismesse e ci avremmo disegnato sopra, proprio come avevamo visto fare a William Kentridge. Con il prof di musica la classe avrebbe anche realizzato una sonorizzazione ispirata all’installazione. Avremmo recuperato storie di emigranti siciliani in America. Avremmo utilizzato le letture come ispirazione per le opere creative che gli studenti avrebbero realizzato su libri e carte geografiche e ci sarebbe stato spazio anche per tirar dentro un film come Io capitano di Matteo Garrone, che in quei giorni le classi della scuola avevano visto al cinema.

Quella che segue è una galleria dei lavori realizzati in quei giorni, che abbiamo poi esposto durante l’open day della scuola come in una vera e propria galleria d’arte contemporanea.

[Altri appunti sulla scuola li trovi qui: https://www.mariovalentini.net/category/c-e-vita-tra-i-banchi/]

Il gusto di Alberto Sordi per l’arte contemporanea

Le vacanze intelligenti è il terzo episodio, diretto e interpretato da Alberto Sordi, del film collettivo Dove vai in vacanza?, del 1978. Gli altri due episodi sono di Mauro Bolognini e Luciano Salce.

Racconta di una coppia di fruttaroli romani, interpretati da Sordi stesso e da Anna Longhi, che viene costretta dai propri figli, ormai vicini alla laurea e avviati a una carriera da professionisti, a fare una vacanza culturale in Italia. Lui si chiama Remo, lei Augusta. Uno dei figli, futuro medico, li mette anche a dieta. I due si ritrovano così a visitare la Biennale di Venezia del 1978, quella vera, con le vere opere esposte quell’anno. Augusta, corpulenta e appesantita, va inciampando su opere dislocate per terra. Stanchissimi, si appoggiano a un muro per riposare un po’ e vengono rimproverati da una maschera perché quello che in effetti sembra un semplice muro è invece un’opera d’arte. Si accodano a un professore che guida un gruppo di visitatori spiegando il senso delle opere. Augusta chiede a Remo: «Ma che dice quello?». E lui: «E che dice… spiega! Spiega le cose che noi non potemo capì». Di fronte a una serie di grandi imbuti ribaltati, Augusta chiede a Remo: «Ma che sò?». E Remo: «Sò imbuti, ni vedi?». Augusta: «Pure io li metto così quando spiccio ‘a cucina». E Remo: «Ma che cazzo c’entra ‘a cucina? È ‘na scultura, stamo alla Biennale, Augù!». 

La visita va avanti. Arrivano in una sala dove c’è un recinto con delle pecore vive. I due pensano di essersi sbagliati, vogliono uscire. Dicono: «È ‘na stalla!». La massa dei visitatori che avanza li ricaccia dentro. Uno dice loro che non è una stalla ma si tratta di un’opera israeliana. Di fronte alla riproduzione fedelissima di una donna nuda, il professore spiega: «È quasi traumatizzante l’incontro con John DeAndrea. Si tratta come ben vedete di un calco in poliestere fatto su una autentica ragazza, la cui vivezza è accentuata dalla meticolosità, come questi veri capelli, questo vero tappeto. Un realismo che trapassa in un superiore, conturbante realismo». Remo si avvicina per guardarla meglio, Augusta gli dice: «Ma ’ndo vai? lasciala stà!». E Remo: «Augù, è mica vera!». E Augusta: «Vera o finta, è sempre ‘na zozzona!».

Due personaggi di Duane Hanson

A un certo punto la situazione si ribalta. Nello scambio di ruoli tra esseri viventi e statue, statue e esseri viventi, il tutto si incasina e succede che la coppia, anzi a dir la verità la sola Augusta, venga scambiata per una delle statue, diventando una scultura in tutto simile a quelle che in quegli anni realizzava Duane Hanson. Riceve da uno dei visitatori pure una quotazione. 

Duane Hanson, sculptor, at the Whitney Museum, February 1978 – Bernard Gotfryd photograph collection (Library of Congress) –

Augusta e Remo entrano infatti in una sala dove c’è un’installazione con una sedia vuota sotto una palma mossa da un vento artificiale. Augusta è stanchissima e affamata, vorrebbe fermarsi a riposare. Remo le chiede: «Ma che te senti?». E lei: «Tutto. Ho sete, fame, me si so’ gonfiati i piedi». Remo: «Augù, ce sarà un posto qua dentro dove prendere un caffè». E Augusta: «Un maritozzo!». Remo: «Tutto quello che voi. Armeno ce mettemo a sède». 

Senza capire che quella sedia fa parte di un’installazione, Remo invita Augusta a sedersi mentre lui va a recuperare qualcosa da mangiare e da bere. Lei si siede allungando le gambe e chiudendo gli occhi. Subito dopo entra un altro gruppo di visitatori. Si fermano a guardare l’installazione scambiando Augusta per una scultura iperrealista. C’è una coppia di raffinati borghesi che si considerano intenditori d’arte. La donna dà un titolo all’installazione con Augusta seduta: Sedia con corpo adagiato. L’uomo afferma che è un’opera originale e che lui per 18 milioni la comprerebbe. Altri visitatori fotografano l’opera. Quando arriva Remo, Augusta riapre gli occhi e dice: «E porca mignotta! Ma chi so’ questi? Me stanno a fotografà!». Remo si rivolge ai visitatori dicendo: «Questa è la mia signora, che state a fotografare?». E poi, verso Augusta: «Ma non glielo potevi di’ che non sei ‘na statua? ». E rivolgendosi di nuovo al pubblico: «Che è mica la donna nuda questa!».

Il gusto di Alberto Sordi per l’arte contemporanea

Tutti i commenti che ho intercettato sul film dicono, un po’ superficialmente, che il film è una presa in giro dell’arte contemporanea e della sua astruseria, ma a me non sembra così scontata e univoca questa lettura.

Il film, certo, prende di mira il mondo dell’arte, di cui stigmatizza tic e intellettualismo un po’ vacuo. Ma nemmeno i fruttaroli ci fanno una gran figura, incapaci come sono di comprendere l’ambiguità dei segni. Il film certifica comunque che tra il senso comune dei fruttaroli e le invenzioni degli artisti si è creato un vero e proprio corto circuito. Dunque gli artisti, in qualche modo, fanno anche centro, colpiscono il bersaglio. 

Se Remo come personaggio è del tutto asciutto di arte contemporanea, e non ne comprende dinamiche e strategie, in quanto regista Sordi sembra quasi sintonizzarsi con i procedimenti compositivi degli artisti. Non crea soltanto delle fantastiche situazioni comiche, con accurate inquadrature riproduce immagini tipiche dell’arte visiva di quegli anni. In una di queste inquadrature ci sono due tele grandissime completamente bianche. Un uomo di spalle fissa immobile quel bianco a due passi dalla tela. Sembra proprio una installazione e quell’uomo sembra una scultura che fissa una tela bianca. Ma l’uomo improvvisamente si muove e va via. Sono allora Remo e Augusta ad avvicinarsi alla tela e a fissare immobili la grande superificie bianca senza capire cosa ci sia da guardare. Un’altra installazione allora prende forma sullo schermo cinematografico, leggermente diversa dalla precedente. 

Per questo l’episodio di Sordi a me sembra quasi un vero e proprio omaggio, ammirato e sincero, a uno come Duane Hanson. Remo e Augusta sono proprio due sculture di Hanson vive, animate e in movimento. Aggirandosi spaesate tra le sale espositive, di cui non capiscono sottotesti, concetti e linguaggio, queste statue vive a loro volta mettono sottosopra e ribaltano la sala espositiva, cominciando a giocare, inconsapevoli, lo stesso gioco degli artisti. Molto meglio di quanto non facciano le pecore vive che belano. 

Si sospetta che senza una Augusta o un Remo, incapaci di comprendere il gioco di spiazzamenti e ricodificazioni degli artisti, quelle opere rimarrebbero lettera morta. Sordi ci regala due perfetti incompetenti di arte contemporanea. Con accenti, tra l’altro, di grande tenerezza. Il film infatti tocca anche note sommesse, soprattutto quando racconta il rapporto tra i due fruttaroli e i loro figli.

Remo e Augusta allora, dicevamo, sono i due visitatori ideali. Scombinano e destabilizzano la normale codificazione degli spazi tanto bene quanto fanno gli artisti. L’effetto non è tanto la presa in giro degli uni o degli altri. L’effetto vero è la concreta, perfetta realizzazione degli intenti programmatici degli artisti in mostra alla Biennale. Che devono avere dunque, per fare centro, come ospiti delle sale, non un pubblico di gente perfettamente a proprio agio nel sistema dell’arte. Ma due inconsapevoli spettatori. Allora gli spazi e i codici deragliano veramente e il progetto degli artisti contemporanei trova piena realizzazione.

Ed è allora che Alberto Sordi, il regista, non l’interprete del personaggio Remo, ci appare come un perfetto intenditore.

Se queste considerazioni hanno un minimo di senso, quel che bisogna concludere è dunque che se c’è uno che davvero ha compreso come andavano considerate, lette, attraversate quelle opere e quegli spazi, questo è Alberto Sordi. Il quale mira certo alla satira. Ma, facendo in modo che Remo e Augusta si aggirino per le sale della Biennale, duplica e rilancia anche il lavoro degli artisti. Raddoppia insomma la posta sul piatto, portando in scena i visitatori perfetti affinché quelle opere agiscano nello spazio e in rapporto al pubblico al massimo della loro potenza.