Categoria: viaggi nei paraggi

Via Solferino 36

Alberto Zambelli è per me da più di vent’anni Alberto socio. Lo è per distinguerlo da altri Alberto che da molti anni popolano la mia vita. “Socio” vuol dire che, ai tempi in cui l’ho conosciuto, alla fine degli anni novanta, a Bologna, era socio di un’altra mia amica di nome Graziella e datore di lavoro di una mia ex fidanzata di nome Arianna.

Alberto Zambelli è un artigiano, restauratore soprattutto di antiche cornici e oggetti d’arte in legno. L’ho visto un mucchio di volte intagliare, lavorare di lima o di sgorbia, prendere delle sottilissime foglie d’oro e applicarle con grande precisione e pazienza sulle cornici da restaurare, soffiandoci sopra per separarle l’una dall’altra o per farle aderire ben bene alla superficie da ricoprire. In quanto grande intenditore di pezzi antichi è anche conoscitore di musei e luoghi storici della città in cui abita, Bologna appunto, e dei dintorni. Conosce tutto: palazzi o ville storiche in cui lo chiamano ogni tanto per valutazioni o restauri, e piccoli musei in cui si custodiscono opere anche di secondaria importanza e non particolarmente note. Se ti dai appuntamento con lui di mattina per prendere un caffè può capitare, come mi è effettivamente successo ad aprile, che ti chieda se lo accompagni a vedere un piccolo museo (abbastanza sconosciuto ai più) nel centro di Bologna, con pezzi d’arte del ‘500 o del ‘600, perché ci sono delle cornici che deve visionare. Sono uguali ad alcune cornici su cui sta lavorando e il cui intaglio deve riprodurre, e per questo deve andare a studiarle nei minimi dettagli. E così ci andate. Lui fotografa, analizza, paragona; tu ti aggiri per il museo e fai il turista; la vostra amica Graziella, che anche lei è una bravissima restauratrice, un po’ aiuta lui ad analizzare, un po’ aiuta te a fare il turista.

Gite fuori porta

Alberto socio è un ottimo compagno di gite fuori porta, soprattutto se allo scopo di visitare magazzini che custodiscono e rivendono robe del passato, pezzi vintage, mobili dismessi anche vecchi o vecchissimi, oggettistica di vario tipo e uso. Alla fine degli anni ’90 ne facevamo spesso di queste gite, io con Alberto socio e la ex fidanzata Arianna, e ci portavamo via di tutto un po’. Poi Arianna costruiva con quegli oggetti opere d’arte o scenografie; io mi ci arredavo la casa; Alberto socio progettava e realizzava mobili. Per due volte con i pezzi recuperati in qualche magazzino Alberto socio ha realizzato dei mobili proprio per arredare casa mia.

L’altro giorno, sabato 24, ero a Bologna per delle faccende letterarie e avevo la mattina libera. Ho detto ad Alberto che avrei voluto vedere un museo della fotografia di cui avevo molto sentito parlare e che non avevo ancora visitato. Lui, che è un grande conoscitore di musei, l’aveva già visto diverse volte. Ma c’era una mostra nuova nuova, appena inaugarata, e anche lui era interessato a vederla. Così, dopo tanti anni che non lo facevamo, abbiamo organizzato una bella gita fuori porta e siamo andati lungo la via Emilia in bicicletta fino al MAST, una sorta di museo della fotografia interamente dedicato al lavoro industriale.

Image Capital

Image Capital, la mostra in corso al MAST di Bologna fino all’8 Gennaio 2023, è un progetto dell’artista e fotografo Armin Linke e della storica della fotografia Estelle Blaschke. Non è propriamente una di quelle mostre riposanti, in cui entri e ti godi per un’ora o più delle foto che riempiono gli occhi grazie alla loro fascinazione estetica. Si tratta piuttosto di un lungo e elaborato saggio per immagini e video. Richiede applicazione e concentrazione. Indaga il ruolo centrale che la fotografia detiene in quanto tecnologia dell’informazione, spesso proprio nel cuore dei processi industriali. Come ha scritto Michele Smargiassi su Repubblica: “Image Capital è un’investigazione e uno svelamento critico dei meccanismi attraverso i quali la fotografia raccoglie, seleziona, archivia, utilizza e diffonde informazioni”. Il percorso espositivo di Armin Linke e Estelle Blaschke tratta insomma la fotografia come “capitale semantico disponibile per utilizzi diversi, strumento e fonte di potere”. Chi possiede una gran massa di informazioni fotografiche ha oggi in mano un potere sterminato. Le immagini fotografiche vengono a costituire archivi, banche dati da cui si ricavano in continuazione informazioni dettagliate che arrivano a costituire una “formidabile fabbrica di valore anche commerciale”, come avviene per quella multinazionale multimiliardaria che custodisce i rulli di celluloide, i microfilm e i materiali cartacei (anche) dell’Ufficio brevetti e degli Archivi Nazionali degli Stati Uniti in una cava di calcare esausta della Pennysilvania chiamata Iron Mountain.

Via Solferino 36

Ci sono stati degli anni che andavo quasi ogni giorno a vedere restaurare cornici e antichi pezzi d’arte nel laboratorio che Alberto socio condivideva con la mia amica Graziella e in cui era impiegata l’ex fidanzata Arianna. Lo devo ammettere, mi attirava lì dentro con tanta insistenza soprattutto il pensiero della mia fidanzata. Ma ogni volta che mettevo piede in quel laboratorio era come entrare in un piccolo mondo magico di concentrazione e silenzio. C’era la radio che andava spesso su alcune emittenti rigorosamente selezionate, chiacchiere che scivolavano lente nel bel mezzo del loro lavoro manuale, qualche bella risata per qualche storia un po’ assurda successa ad alcuni di noi o riferita da qualcun altro. Ogni tanto Graziella perdeva un po’ la pazienza per quelle continue visite e per quel continuo sostare nel laboratorio, che distraeva dal lavoro. Capivo che era meglio sloggiare, fare altri giri, rimandare a giornate più tranquille le chiacchiere.

Quel laboratorio non c’è più da molti anni. Per un certo periodo Alberto Zambelli ne ha tenuto aperto uno per i fatti suoi. Avrebbe dovuto perdere per questo motivo l’appellativo di Alberto socio, perché non era più socio di nessuno. Ma non l’ha perso, rimarrà Alberto socio per sempre. Poi, per del tempo, ha dovuto chiudere anche quel laboratorio, e si appoggiato a un’altra struttura o è andato a fare i suoi restauri in loco: direttamente negli antichi palazzi e nei musei.

Infine, da qualche anno, ne ha aperto un altro, in via Solferino 36. Sono andato a trovarlo lo scorso venerdì, di pomeriggio, più o meno all’orario di chiusura. Mi diceva che per il lavoro che fa avere una vetrina che dia sotto un portico, in cui chiunque possa vedere i pezzi, gli strumenti, il suo lavoro stesso, è una cosa a cui non vuol più rinunciare.

Il laboratorio di restauro di Alberto Zambelli in via Solferino 36 a Bologna (vetrina)

Quando sono entrato c’era ancora la radio che andava su un’emittente rigorosamente selezionata. Era sempre lo stesso tipo di posto magico. Anzi, lo era di più, se possibile, perché ora, in questo nuovo laboratorio di Alberto socio, ci sono vetrinette piene di libri, di cui è grande cultore e appassionato lettore; oggetti che ha recuperato e collezionato girando per fiere, magazzini e negozi di rigattieri; macchine fotografiche; strumenti musicali acquistati (clarinetti, cornette) e violini costruiti da lui; arredi, oggetti di ogni tipo e di qualsiasi uso. Su una parete, gli strumenti da lavoro: pialletti e sgorbie di ogni misura e forma. Sui banchi da lavoro altri strumenti: colla vinilica, siringhe, morse e morsetti, pialle di ogni misura, martelli e una gran quantità di altra roba il cui nome e utilizzo sconosco. E poi, sparsi dappertutto, i più svariati oggetti: delle forme da calzolaio in legno, cornici appese ai muri che incorniciano ali d’angelo o antichi piedi di mobili intagliati. Lampadari e piatti di bilance pendono dal soffitto. Un’altra antica bilancia, bellissima, è addossata a una parete, appoggiata su una mensola, incastrata tra due vetrine piene di libri. Sotto la bilancia c’è una collezione di colori in tubetto per artisti con la scritta Winsor & Newton. Davanti, su uno strano supporto in ferro, c’è appoggiato un grande schedario in legno. Su uno dei banconi c’è un oggetto in fase di restauro: una grande testa di moro in legno su cui Alberto sta applicando delle dorature.

Non è un magazzino delle cianfrusaglie, non c’è niente che sia stato accatastato alla rinfusa. In quanto laboratorio artigiano lo spazio deve essere efficiente e vivibile. A me pare piuttosto un luogo di lavoro che aspira a diventare un piccolo museo vivente del lavoro artigiano. Un museo in uno spazio un bel po’ ridotto. Un museo delle ore e dei giorni che passano pazienti. L’accumulo qui è altamente selettivo. Oltre al lavoro artigiano, e agli oggetti d’arte e del lavoro artigiano, qui si celebra e si custodisce la pazienza e la perizia. Per questo succede che entrando in quel piccolo spazio-laboratorio il tempo improvvisamente si allunga, si deforma, si posa, si dilata. Anche lo spazio, che è ridottissimo, si dilata e si allarga. Le parole e le musiche provenienti dalla radio arrivano alle orecchie più nette e riposate. Tu ci entri, ti siedi, ti posi anche tu. Indossi abiti più calmi. Se ci stai dei minuti o qualche ora, cambia poco: uscendo hai come l’impressione che hai passato lì dentro dei giorni.

Altre notizie sulla Fondazione MAST di Bologna le trovate qui: https://www.mast.org/

Notizie sul laboratorio di restauro Angelo d’oro di Albertoo Zambelli le trovate qui: https://www.informazione-aziende.it/Azienda_ANGELO-DORO-DI-ALBERTO-ZAMBELLI

Tutti i Viaggi nei paraggi raccontati in questi taccuini, invece, sono raccolti qui: https://www.mariovalentini.net/category/dentro-e-fuori-i-paraggi/

Di là dal fiume, le Madonie

Stasera, Domenica 8 agosto, su Rai 5 alle 22,05 va in onda il documentario di Gianfranco Anzini “Madonie generose”. Fa parte della serie ‘Di là dal fiume e tra gli alberi’, una coproduzione tra Rai3 e RaiCultura giunta ormai alla sua terza edizione.

(sullo stesso argomento tra i miei taccuini e appunti puoi leggere anche questo: https://www.mariovalentini.net/un-pomeriggio-tra-gli-alberi-a-geraci-di-la-dal-fiume/)

Gianfranco Anzini l’ho conosciuto a Bologna all’inizio degli anni ’90. Sono tante le esperienze vissute assieme, da quando facevamo parte del gruppo che realizzava Il Semplice, almanacco delle prose edito da Feltrinelli.

Farlo incontrare con Nino Vetri, autore che ammiro moltissimo per l’immaginazione disancorata e senza forzature presente in ogni sua pagina, è stato un piacere. Ero certo che Gianfranco avrebbe saputo cogliere la grazia di Nino. Avrebbe trovato in lui e nel suo modo di scrivere tracce di una grammatica familiare.

Nel documentario sulle Madonie che ha girato per la serie Di là dal fiume e tra gli alberi c’è dunque anche Nino, a Geraci, nella sua vecchia casa di famiglia.

Durante le riprese Gianfranco mi ha tirato nel mezzo, per discorrere con Nino Vetri soprattutto di Sufficit, uno dei suoi libri più belli, interamente ambientato a Geraci.

L’andamento dei documentari di Gianfranco Anzini è proprio quello di chi camminando fa incontri, che portano a altri incontri. Ed è così, attraverso incontri e conversazioni, che ti racconta un posto, un intero territorio.

Con l’aiuto di un altro caro amico, Ignazio Librizzi, polizzano ormai da diversi anni a Palermo, ho dunque cercato di dare una mano a Gianfranco ad allargare ancora un poco il ventaglio dei suoi incontri attraverso le Madonie.

Tesori nascosti tra borghi, boschi e montagne

Scrive Gianfranco Anzini raccontando cosa vedremo in Madonie generose:

Per scoprire le Madonie bisogna fare amicizia con chi vive in uno dei suoi borghi montani: affidandosi a qualcuno di loro, ci si fa guidare là dove ci sono frammenti di bellezza che lo scorrere del tempo ha depositato in luoghi poco accessibili: in crepacci o caverne, dentro chiese e palazzi, nel sottosuolo, oppure in boschi inerpicati in alto, verso cieli spesso di un azzurro intenso e profondo. Ma le scoperte nelle Madonie non si esauriscono nell’impatto con il paesaggio di montagna: anzi! Tra i suoi tesori nascosti c’è lo straordinario Trittico di Polizzi, una meravigliosa gemma della pittura fiamminga, inaspettatamente custodita nella chiesa di Santa Maria Assunta, nel cuore del borgo antico di Polizzi Generosa. Nei pressi di Petralia Soprana c’è una gigantesca miniera di sale fossile: è il salgemma, che arriva sulle nostre tavole. Decenni di attività umana per la sua estrazione, hanno creato in questa miniera un ambiente unico, strabiliante.
In una parte della miniera dove non si estrae più il sale, recentemente è nata una galleria di arte moderna, dove vengono raccolte sculture realizzate da grandi blocchi di sale.

Incontri

La miniera di sale di Petralia Soprana

Chi conosceremo nel corso del documentario? Quali storie? Quali talenti, percorsi di vita e mestieri?

Proprio attorno alla miniera di sale avvengono gli incontri con Giovanni Marramà, con il geologo minerario Gaetano Lombardo e con Ivan Trovato.

Tommaso Muscarella di Caltavuturo guiderà Gianfranco Anzini alla scoperta delle montagne, tra palestre di roccia e mete per escursioni; Maria Di Fina di Polizzi Generosa gli mostrerà le fasce boscate di conifere e di faggete tutelate dall’Ente Parco delle Madonie.

Damiano Sabatino di Bompietro racconterà come, da un talento artistico precoce, sia arrivato negli anni a ricevere un riconoscimento per l’UNESCO per i suoi bastoni da passeggio: veri e propri oggetti d’arte realizzati ad intaglio.

E poi conosceremo: Biagio La Rosa di Caltavuturo, che esegue volteggi a cavallo della sua puledra Flica; Petra Gottfried, tedesca da tanti anni in Italia, che realizza gioielli di bigiotteria utilizzando molto i cristalli di sale estratti dalla miniera; Sofia Muscato, attrice di Valledolmo che crea nel dialetto del suo paese acuti adattamenti dei dialoghi platonici, con cui si esibisce in scuole e teatri; Gandolfo Pagano, designer e musicista, che progetta e suona nella casa di famiglia a Polizzi Generosa, dove è andato a vivere trasferendosi da Palermo; il pittore Michelangelo Lacagnina e la sua collaborazione con Domenico Dolce, originario di Polizzi, e Stefano Gabbana.

Il documentario, dopo questa prima programmazione su Rai 5, verrà riproposto su Rai 3 a metà settembre.

Qui un breve trailer di Madonie generose: https://www.facebook.com/gemma.giorgini.963/videos/1434918536904278

Qui invece le precedenti puntate di Di là dal fiume e tra gli alberi: https://www.raiplay.it/programmi/diladalfiumeetraglialberi



Un pomeriggio tra gli alberi, a Geraci, di là dal fiume (anche se a Geraci un fiume non c’è)

Ogni tanto si respira, abbandonando la città per migrare brevemente sui monti.

Con Nino Vetri, a Geraci, nella casa in cui è ambientato il suo Sufficit, romanzo Sellerio uscito qualche anno fa. E con Gianfranco Anzini, amico di vecchia data, per la nuova puntata, dedicata alle Madonie, che sta realizzando per il programma di RAI 5 “Di là dal fiume e tra gli alberi”.

(per vedere le diverse puntate di “Di là dal fiume e tra gli alberi” il link è questo: https://www.raiplay.it/programmi/diladalfiumeetraglialberi)

“Letta la missiva proveniente dalla curia, al parroco quasi gli venne un colpo. Saliva e scendeva le scale della sagrestia come in preda a un delirio dandosi dei gran pugni sulla testa.

A me doveva capitare! A me! E che ho fatto di male! E che! Questo mi merito?

La perpetua sfilò con decisione il foglio dalle mani del curato e prese a leggere ad alta voce: Avendo sua eminenza il cardinale deciso di trascorrere una settimana di ritiro spirituale e penitenza in codesta parrocchia di campagna sita in contrada Guadanella si trasmette, per quanto di competenza, la dieta preferita del suddetto illustrissimo ospite: Pasta casereccia al ragù di coniglio o brodetto magro di manzo, stinco di maiale al vino, castrato alla brace o al sugo, fave, insalata, cicoria o scarola bollita condita con olio e pepe, sfoglio di Polizzi, caffè, amaro o rosolio. Sufficit.

E meno male che è in dieta di penitenza, gridava il curato agitando le braccia. Ma poi, che sarà questo sufficit? Dove lo trovo il sufficit?”

(Nino Vetri, Sufficit, 2012)

Nino Vetri, Sufficit, 2012

Rapida anatomia di un fico

Rapida anatomia di un fico
Fica rapidità di un atomo
Autonomia di un fico rapido
Ripida autonomia di un fico
Fica autonomia di un rapido
Ripido fico di un autonomo
Fisica rapidità di un atomo
Rapida anatomia di un fisico
Autonoma fisicità di una rapida

FICO

Rapida anatomia di un fico
Rapida anatomia di un fico
Rapida anatomia di un fico
Rapida anatomia di un fico

ANATOMIA RAPIDA

La memoria di Cecilia Mangini

L’ultimo film di Cecilia Mangini

“Sono le fotografie che mi ricordano le cose, perché io sto perdendo la memoria” dice Cecilia Mangini in Due scatole dimenticate. Un viaggio in Vietnam, il suo ultimo film, realizzato con Paolo Pisanelli. Mentre parla si aggira come una rabdomante, circospetta, in cerca di qualche piccolo tesoro, tra un ingombro di oggetti disseminati per terra, tutt’attorno a un tavolino basso. Due scatole piene di provini ritrovate dopo almeno cinquant’anni nel fondo di un armadio sono state l’occasione del film. Due scatole piene di fotografie fatte in Vietnam tra il 1964 e il 1965, nel corso di un viaggio lungo tre mesi in compagnia del marito, Lino Del Fra. Erano andati lì per un sopralluogo in vista di un film (mai girato a causa della guerra).

Era il mese di maggio del 2019 e non ricordo più dove avevo letto questo fatto che Cecilia Mangini sarebbe stata a Palermo per una masterclass nella sede siciliana della Scuola Nazionale di Cinema. Il programma diceva che in serata ci sarebbe stata la proiezione di Due scatole scomparse e un incontro con la regista aperti al pubblico. Alla Zisa, proprio qui a due passi. Nemmeno la fatica di prendere la macchina. Ci sono andato proprio per vedere e ascoltare lei. Poi (ma questo conta pochissimo nell’economia dei fatti) alla proiezione ho incontrato anche un mio amico, studioso di cinema, che non vedevo da più di dieci anni e che abita tra Milano e il resto del mondo, al quale ho detto: “ma tu sei a Palermo e non mi chiami!”. Ha nicchiato. Poi lui ha detto: “ridammi il tuo numero, domani ti telefono e se puoi ci vediamo”. Mai più sentito.

Scuola Nazionale di Cinema- sede siciliana ai Cantieri Culturali della Zisa (Palermo)

Carotaggi

“La memoria è come un deposito geologico. Si fa un carotaggio e si arriva all’olocene, al pleistocene, sempre più giù. Anche con la memoria è così”, aveva detto Cecilia Mangini a Palermo commentando il suo film, e non mi sfugge l’autoironia di questa ultranovantenne.

Non la ricordavo affatto questa frase. Ho recuperato questo mio personale pezzettino di memoria scomparsa grazie a un video, fatto in occasione di quell’evento, pubblicato sul sito di Repubblica. Sfrutto questa frase salvata dalla dimeticanza per fare il mio personale carotaggio su quello che mi fa venire in mente il nome e la figura di Cecilia Mangini. Oltre al mio amico studioso di cinema che non mi ha più chiamato:

  • Essere donne, bellissimo film del 1965 sulla condizione della donna tra lavoro e famiglia, visto su youtube;
  • All’armi siam fascisti!, film del 1962, visto su una piattaforma che ora non ricordo qual è, ma a cui i miei due familiari erano abbonati.
  • la Storia Fotografica della Società Italiana, una collana di libri pubblicata alla fine degli anni ’90 da Editori Riuniti.
  • Una mostra delle fotografie di Cecilia Mangini scattate alle Eolie, visitata proprio a Lipari, al Castello, in una sala di fronte al Museo Archeologico, tre, quattro, forse cinque anni fa.

Mi piacevano da matti quei libri della Storia fotografica della società italiana. Ma credo che piacessero solo a me e a pochi altri. Li ho comprati tutti. I primi a prezzo intero in libreria. Gli altri a metà prezzo tra gli usati. Poi sono spariti. Poi è sparita anche la casa editrice, gli Editori Riuniti, che però dopo qualche tempo è riapparsa. Ora esiste di nuovo. Io pure ci sono, magari fatto a pezzi, tutto un po’ smembrato, una gamba lì, un pezzo di cervello dall’altra parte: non ci sono proprio tutto tutto. Cecilia Mangini invece pochi giorni fa, esattamente il 21 Gennaio, se n’è andata. Aveva 93 anni e a Palermo, ancora un anno e mezzo fa, era lucida e arzilla nonostante si muovesse con l’aiuto di una stampella. I suoi 93 anni se li portava benissimo.

Andrea Nemiz, La ricostruzione. 1945-1953, Editori Riuniti

Lipari

Lì, in quella specie di storia d’Italia per immagini, nel volume intitolato La ricostruzione. 1945-1953 curato da Andrea Nemiz, c’erano alcuni scatti del primo reportage realizzato da Cecilia Mangini nel 1950: un lavoro su Lipari, le immagini dei lavoratori delle cave di pomice. In una foto si vedevano delle donne lavorare. La didascalia diceva: “Le lavoratrici delle cave di pomice: un sacco in testa, un ombrello per proteggersi dal sole cocente, la bottiglia dell’acqua sempre accanto”. In un’altra foto si vedevano degli uomini lavorare, in mutande, dei fazzoletti in testa con dei nodini fatti ai quattro angoli, per ripararsi dal sole. La didascalia diceva: “I sacchi di pomice sono immagazzinati dagli uomini a forza di braccia; una piccola mascherina e un fazzoletto annodato in testa sono un’illusione per un’impossibile protezione dalla silicosi”.

Sono immagini inevitabilmente dominate dal bianco. Distese di bianco intervallate da poche forme scure a formare improvvisi, nettissmi contrasti. Una fotografia tesa a testimoniare la fatica degli uomini, le sacche di miseria e le contraddizioni sociali della Repubblica italiana appena nata. Ma in cui dalla miseria affiora a tratti la bellezza.

Silicosi

La silicosi è una malattia polmonare causata dall’inalazione di minuscole particelle di diossido di silicone. Una tipica malattia del lavoro. La maggior parte delle volte portava alla morte. Anzi: è la prima e più antica malattia polmonare da lavoro conosciuta in Italia, quella riscontrata da più tempo. La contraeva chi lavorava in miniera o nelle cave, gli spaccapietre, chi faceva esplodere rocce e sabbia. E tra questi, appunto, i cavatori di pomice di Lipari. Del cui lavoro, una decina di anni dopo le fotografie di Cecilia Mangini, nel 1961, il giornalista Francesco Rosso avrebbe scritto in questo modo: ” L’intero versante settentrionale dell’isola di Lipari è una immensa cava di pomice, parte a cielo aperto e parte solcata da centinaia di anguste gallerie. […] Nei mesi estivi, quando il sole saetta implacabile, lavorare lassù è pauroso. La roccia libera un calore intollerabile, la polvere cocente soffoca, la sete tortura e i meno forti cedono. Un capogiro, uno sforzo maldestro per muovere sulla liscia parete le gambe impiombate di stanchezza, e la voragine si spalanca sotto gli ignari, che – storditi dall’insolazione – hanno già perduto conoscenza ancor prima di iniziare il volo di trecento metri verso l’abisso d’ombra”.

Al fondo

Al fondo del carotaggio: due ricordi, i più vecchi. Da bambino passavo le estati in un paese a circa venti chilometri da Messina e a non più di dieci chilometri da Milazzo. Il mare era pieno di pesci, e già questa è una notizia. L’entroterra era pieno di orti (anche questa è una notizia). Di fronte alla spiaggia: le isole. In preciso ordine, da ovest a est: Vulcano, Lipari Salina, Panarea, Stromboli. C’è tutta una scienza piuttosto complessa, e che genera infinite polemiche tra la gente del posto, legata alla vista delle isole dalla costa tra Milazzo e Messina. Meglio sorvolare.

La geografia dei luoghi non troppo distanti da lì ti mandava notizie per mare, come messaggi in bottiglia. Le cose trovate in spiaggia raccontavano storie. Pezzi di mattone rosso levigati parlavano di cantieri di case in costruzione vicino alla spiaggia, magari abusive. La pece che si attaccava ai piedi se camminavi distratto raccontava della vicina raffineria di Milazzo o magari di qualche nave, partita da lì, che aveva lavato le stive svuotando il risciacquo in pieno mare. Uno strumento perfetto per pulire la pece dai piedi se ti capitava di beccartela in spiaggia era la pomice, proveniente dritta dritta dalle spiagge di Lipari, lì davanti, di fronte al tuo sguardo.

E poi un giorno, dopo avere ascoltato come un aborigeno dell’Australia queste storie narrate da oggetti depositati nei luoghi, a Lipari i miei genitori mi ci hanno portato. E ora, non so se è un inganno, ma ricordo con una certa precisione una discesa di polvere o sabbia bianchissima da cui ci siamo lasciati andare, rotolando giù giù per una cinquantina di metri, fino a cadere direttamente in mare. Una discesa che durava una vita, tanto era lungo (ma soffice) quella specie di burrone. Però francamente non so. Non so se è valido questo ricordo o se è successo qualcosa di simile a quello che raccontava Cecilia Mangini qui a Palermo: “Pensa e ripensa sono venuti fuori tanti ricordi. Io se li ho aggiustati a modo mio non lo so”.

[sulla recente scomparsa di Cecilia Mangini si può leggere questo articolo di Cristina Piccino, uscito sul Manifesto: https://ilmanifesto.it/cecilia-mangini-il-mondo-dentro-al-fotogramma/

Il documentario di Cecilia Mangini Essere donne del 1965, si può vedere qui: https://www.youtube.com/watch?v=mk25pEfwcX4

Sulle cave di pomice di Lipari ho trovato in rete questo approfondimento, che mi sembra buono e da cui ho tratto il brano di Francesco Rosso: https://narraredistoria.com/2020/05/03/storia-la-pomice-di-lipari-storia-di-unindustria-forse-finita/ ]