Categoria: c’è vita tra i banchi

Portarsi Kentridge a scuola

“Dovrei portarmela a scuola”, pensavo visitando You Whom I Could Not Save, esposizione di lavori del grande William Kentridge con un’installazione site specific, realizzata apposta per gli spazi del Monte dei pegni di Santa Rosalia a palazzo Branciforte, una delle strutture architettoniche più affascinanti di Palermo. (https://www.palazzobranciforte.it/)

Palazzo Branciforte – Monte di Santa Rosalia-msu-1882 – Image: Matthias Süßen (matthias-suessen.de) Licence: license CC BY-SA via Wikimedia Commons

I magazzini dell’ottocentesco Monte dei pegni, da diversi anni diventati visitabili, sono enormi strutture in legno, alte più di dieci metri, in cui venivano depositati gli averi più poveri, lasciati in cambio di pochi soldi: materassi, lenzuola, biancheria personale. Spesso questi poveri beni familiari venivano portati al Monte allo scopo di racimolare i soldi per potere emigrare, e dunque sapendo che non sarebbero stati riscattati mai più.

Se fossero delle opere grafiche gli spazi del Monte sarebbero molto simili alle Carceri di Piranesi. Ma credo che a Kentridge queste enormi strutture lignee abbiano fatto venire in mente piuttosto la pancia di una grande nave.

Quella che ha ideato per il Monte è stata un’installazione prima di tutto sonora, lasciando intatte e vuote le scaffalature, con solo dei grandi altoparlanti che diffondevano una bellissima creazione musicale di Nhlanhla Mahlangu, composta per sette voci femminili che cantavano nelle lingue nguni dell’Africa meridionale. In una sala laterale più raccolta intanto era stato collocata una video-installazione ispirata a storie di viaggi e fughe via mare, ibridazioni e meticciamenti.

Negli altri spazi del piano nobile del palazzo come le sale espositive e la biblioteca, riprogettati da Gae Aulenti , sono stati esposti diversi lavori inediti di Kentridge, realizzati per questo evento di Palermo su vecchi fogli contabili o anche semplici libri.

Lavori realizzati su antiche carte geografiche e vecchie opere video di Kentridge , veri e propri film d’animazione fatti disegnando sulle pagine dei libri, si potevano invece vedere nella grande sala espositiva del piano terra, la Cavallerizza, dove è ospitata la collezione archeologica della Fondazione Sicilia. Tra queste opere video: “De como não fui Ministro d’Estado” (https://www.youtube.com/watch?v=nxGrazdl9WY).

Kentridge a scuola

Mi volevo portare Kentridge a scuola, dicevo. Non solo accompagnare le classi in cui insegno a visitare la mostra e l’installazione ma portare a scuola qualcosa di quell’esperienza. Era la fine di ottobre e si avvicinava la settimana di Libriamoci, ormai un appuntamento fisso per molte scuole. Una settimana interamente dedicata ai libri e alla lettura. Cercavo qualche buona idea da proporre quest’anno a studenti e studentesse e ho pensato proprio a William Kentridge: saremmo andati a visitare la mostra e poi ce la saremmo portata a scuola.

Avremmo letto pagine di alcuni libri di avventure e viaggi per nave, partenze, fughe e naufragi. Altri vecchi libri, raccattati da qualche parte, li avremmo scarabocchiati, tagliati, fatti a pezzi e ricomposti. Avremmo recuperato vecchie carte geografiche ormai dismesse e ci avremmo disegnato sopra, proprio come avevamo visto fare a William Kentridge. Con il prof di musica la classe avrebbe anche realizzato una sonorizzazione ispirata all’installazione. Avremmo recuperato storie di emigranti siciliani in America. Avremmo utilizzato le letture come ispirazione per le opere creative che gli studenti avrebbero realizzato su libri e carte geografiche e ci sarebbe stato spazio anche per tirar dentro un film come Io capitano di Matteo Garrone, che in quei giorni le classi della scuola avevano visto al cinema.

Quella che segue è una galleria dei lavori realizzati in quei giorni, che abbiamo poi esposto durante l’open day della scuola come in una vera e propria galleria d’arte contemporanea.

[Altri appunti sulla scuola li trovi qui: https://www.mariovalentini.net/category/c-e-vita-tra-i-banchi/]

Dibattito in classe

Di recente, nella terza media in cui insegno Italiano, siamo arrivati a parlare dei complementi di agente e di causa efficiente. Dopo avere chiarito che gli esseri animati vengono considerati dalle grammatiche complementi d’agente e quelli inanimati complementi di causa efficiente, ho chiesto per scherzo alla classe come avremmo dovuto fare l’analisi logica se avessimo trovato in una frase passiva un robot o un’intelligenza artificale. Li avremmo dovuti considerare complementi d’agente o di causa efficiente? Non immaginavo che si sarebbero create due fazioni nettamente in contrasto e che la questione avrebbe scatenato un reale e infervorato dibattito tra i sostenitori dell’una e dell’altra opinione. Così ho chiesto a ognuno dei due gruppi in cui si era divisa la classe di scegliere un proprio rappresentante ufficiale che, dopo essersi opportunamente documentato, pronunciasse in aula un discorso in difesa del proprio punto di vista, cercando di convincere i sostenitori della fazione avversa e soprattutto gli indecisi o chi  non si era schierato da nessuna delle due parti. Non avevamo parlato ancora in classe del testo argomentativo, hanno lavorato d’istinto. A quel punto, però, a dibattito concluso, abbiamo letto dal libro caratteristiche e strategie dell’argomentazione, analizzando innanzitutto quel che veniva soddisfatto e quel che mancava nei testi prodotti dai due compagni di classe. La classe poi ha votato di nuovo per l’una o per l’altra opinione. L’esito è stato molto più incerto rispetto alla prima votazione: ha vinto per un solo voto il complemento di causa efficiente. E voi? Per quale dei due complementi propendete? E quale tra i due discorsi vi convince di più?

Li potete leggere qui di seguito, per come sono stati pronunciati ad alta voce da G. e da F. Li trovate anche sul blog della classe [che si può leggere a questo link: https://unsorrisoallalettura.altervista.org/]. 

Primo discorso – in cui G. sostiene che nelle frasi passive robot e intelligenze artificiali vanno trattati come complementi di causa efficiente

I robot e le intelligenze artificiali (Alexa, Siri etc.) secondo me sono complementi di causa efficiente.

Definizione:

L’intelligenza artificiale è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. La vita 3.0 che si sviluppa nell’era dell’intelligenza artificiale, autonomamente, progetta il proprio hardware e il proprio software” e non è più legata alla materia organica che costituisce il corpo di quelli che abitualmente chiamiamo viventi.

Differenza tra robot e cyborg:

La componente vivente è ciò che separa un cyborg da un robot. Ciò significa fondamentalmente che un cyborg è vivo mentre un robot no. Anche se alcuni robot possono simulare certi aspetti degli esseri viventi, essi non sono mai veramente vivi. Un robot è in grado di fare ciò per cui è stato programmato mentre un cyborg, in particolare i cyborg umani, esercitano il libero arbitrio sulle proprie attività. I robot in generale e le intelligenze artificiali sono macchine automatizzate, cioè rese autonome dalla tecnologia e che hanno bisogno di un intervento minimo dell’uomo. In più non possiedono alcuni dei sensi (tatto, gusto, olfatto), sentimenti e emozioni, non hanno una mente e pensieri, e in generale non possono essere paragonati all’uomo. I robot anche essendo autonomi rispondono ai voleri dell’uomo e sono costruiti e programmati da esso, e sono quindi oggetti. I robot hanno una vita infinita a differenza degli uomini.

Quindi al giorno d’oggi i robot non possono essere chiamati animati, dal momento che, anche se in minima parte, dipendono dall’uomo. Infine, essendo oggetti, dal punto di vista grammaticale in una frase passiva dovrebbero costituire un complemento di causa efficiente. On-line ci sono alcuni siti che affermano che in analisi logica i robot e le intelligenze artificiali sono complementi di causa efficiente. Per esempio se andiamo al sito “www.analisilogicaonline.it”, che ti fa fare l’analisi logica di una frase, e scriviamo “Samuele è stato battuto da un robot” il sito classificherà in questo modo la frase:

Samuele: soggetto

è stato battuto: predicato verbale

da un robot: complemento di causa efficiente

Inoltre in analisi grammaticale le parole “robot” e “intelligenza” sono nomi comuni di cosa.

Secondo discorso – in cui F. sostiene che nelle frasi passive robot e intelligenze artificiali vanno trattati come complementi d’agente

Vorrei cominciare leggendo la definizione di complemento d’agente e di causa efficiente data dall’Accademia della Crusca:

Secondo un approccio classico all’analisi sintattica, in presenza di un verbo in forma passiva, il complemento d’agente indica colui che compie l’azione espressa dal verbo, ovvero il soggetto della frase attiva, l’agente. L’analisi logica distingue tra complemento d’agente e di causa efficiente. Si parla di complemento d’agente quando chi svolge l’azione è un’entità animata (persona o animale), es. La preda è stata inseguita dal lupo. In presenza di un’entità non animata (un oggetto, un fatto o un’entità astratta), si ha invece un complemento di causa efficiente, in quanto causa che produce l’effetto, es. La porta è stata aperta dal vento.

Sempre l’Accademia della Crusca, però, dice:

L’animatezza è dunque il parametro in base al quale si può distinguere il complemento d’agente da quello di causa efficiente. Si tratta di una nozione intuitiva e al contempo di difficile definizione, comunemente associata all’idea della vita in sé e quindi a concetti a essa relati quali il movimento, l’essere senziente, ecc. (Yakamoto, 1999). Esistono entità che presentano una classificazione ambigua, poiché si trovano, nella nostra percezione della realtà, in una condizione che oscilla tra animato e non animato. Ne sono un esempio le piante. In frasi come L’ossigeno è prodotto dall’aloe durante la notte trattiamo la pianta (aloe) come un complemento d’agente o di causa efficiente?Per quanto il concetto di animato di solito coincida con quello di essere vivente, la collocazione del regno vegetale nella categoria semantica dell’animatezza risulta controversa. Secondo Treccani i minerali e i vegetali apparterrebbero alla categoria inanimato, in quanto privi di vita animale. Il GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso) invece non include le piante nella categoria inanimato, ma soltanto i minerali e tutto ciò che è privo di vita. Le piante non sono le uniche entità di cui è difficile stabilire l’animatezza. Complicano ulteriormente il quadro quei nomi non umani di per sé, ma che indicano gruppi di uomini (governo, classe, partito, ecc.), nonché le parole che si riferiscono a oggetti tecnologici come computer, lettore ottico, ecc., che compiono azioni sebbene non siano entità animate.

Perciò l’Accademia della Crusca non dà indicazioni precise al riguardo. Io vorrei quindi convincervi che nel caso di nomi quali robot, intelligenza artificiale, automa, siamo davanti a complementi d’agente, e non di causa efficiente. Per prima cosa quindi vorrei leggere le definizioni di queste tre parole. A cominciare da robot.

Definizione di robot:

Ad oggi potremo definire ‘Robot’ un sistema elettromeccanico riprogrammabile, dotato di capacità di percezione e di un’intelligenza propria, predisposto per compiere un ampio numero di compiti diversi.

      Consiglio regionale della Toscana

Continuo leggendovi la definizione di intelligenza artificiale:

L’intelligenza artificiale (IA) è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. I sistemi di IA sono capaci di adattare il proprio comportamento analizzando gli effetti delle azioni precedenti e lavorando in autonomia

European Parliament

A sostegno di questa definizione vorrei fare degli esempi. Per quanto riguarda “una macchina in grado di mostrare capacità umane quali il ragionamento” vorrei portare l’esempio del sistema di guida assistita delle macchine che frenando, cambiando corsia, parcheggiando autonomamente fanno una sorta di ragionamento elaborando i dati che gli vengono dati.

Per quanto riguarda la capacità di apprendimento vorrei portare l’esempio di Alexa, perché penso che l’abbiamo o almeno la conosciamo tutti. Ci sono alcune domande a cui tutte le Alexa risponderanno allo stesso modo. Se io chiedo ad  Alexa qual è la sua canzone preferita, mi risponderà: “il cielo è sempre più blu” di Rino Getano, e così faranno tutte le altre Alexa italiane. Ma se io chiedo ad Alexa di “mettere musica” senza specificare il tipo di musica o l’autore, ogni Alexa metterà una canzone diversa, a seconda dei gusti del suo proprietario. Ho infatti chiesto ai miei compagni M. e L. di mandarmi un audio dove chiedevano alle loro Alexa di “mettere musica”.

Alla mia richiesta Alexa ha mandato questo audio:

Alla richiesta di M. invece Alexa ha mandato musica trap e a quella di L. una canzone di Ligabue.

Questo dimostra che una volta progettate, programmate, vendute e comprate, le Alexa si svilupperanno ognuna autonomamente, in maniera diversa dalle altre.

Proseguo leggendovi la definizione di automa.

Definizione di automa:

1.Macchina che riproduce i movimenti (e in genere anche l’aspetto esterno) dell’uomo e degli animali. Quindi, fig., persona priva di volontà propria, che agisce o si muove macchinalmente senza coscienza dei proprî atti: camminava come un a.; sembrare, ridursi un automa. 2. In cibernetica (in partic. nella teoria generale degli a.), sistema definito da un insieme di segnali di entrata, di stati interni e di segnali di uscita, e tale che per ogni segnale in entrata fornisce un segnale d’uscita dipendente dallo stato interno in cui il sistema stesso si trova. 

dalla Treccani

Infine vi leggerei la voce “animazione” del vocabolario, in quanto chiave per capire definitivamente se possiamo intendere un robot, un’intelligenza artificiale o un automa, complementi d’agente.

Definizione di animazione:

animazióne s. f. [dal lat. animatio -onis, der. di animare (v. animare); nel sign. 2, con influenza del fr. animation]. – 1. a. L’infondere o il ricevere l’anima, la vita: l’a. della creta, da parte di Dio, per la creazione di Adamo; estens.: a. delle cose, del paesaggio, da parte di un artista, di uno scrittore. b. L’opera, l’attività di animare, con riferimento agli usi specifici di animatore (v.): a. dei giochi, a. di attività culturali, a. dei villaggi turistici, e simili. 2. Più com. fig., vivacità, calore, affollamento vivace: parlare con grande a.; discutere con a.; una festa priva di a.; c’era un’insolita a. per le strade; talora entusiasmo, slancio o agitazione dell’animo: i suoi occhi accesi tradivano una singolare animazione. 3.tecnica cinematografica mediante la quale vengono ripresi con speciale apparecchio fotogrammi di disegni o di oggetti inanimati rappresentati, o collocati, in posizioni di lievi spostamenti successivi, così che nella proiezione diano poi allo spettatore l’impressione di un vero e proprio movimento; è una tecnica particolarmente adoperata per i cosiddetti disegni animati e in genere per i film di animazione. 

     dalla Treccani

 

Non so se qualcuno di voi da piccolo ha mai disegnato lo stesso personaggio su diverse pagine di un quadernetto  spostandolo di un millimetro ad ogni pagina, per poi sfogliare il quadernetto e vedere il personaggio muoversi. Questo, a quanto detto dal terzo significato di animazione, è animare quel personaggio. Ogni disegno, preso singolarmente, è indubbiamente inanimato, ma una volta sfogliato il quadernetto si animerà. E si animerà non nel senso di metterci l’anima, perché io in quel disegno non ci metto l’anima, non gli faccio provare delle emozioni, eppure, secondo il terzo significato di animazione, lo animerò.

Non so se voi avete mai visto un robot, io l’ho visto, per esempio, durante la giornata dell’orientamento (l’aveva portato l’Euroform). Una volta attivato, questo robot ha cominciato a ballare, poi è caduto e ha detto: “Oh! Sono caduto. Adesso mi rialzo”. Non è riuscito a rialzarsi perché non aveva abbastanza spazio, e ha detto: “Non riesco a rialzarmi, dovrò aspettare che qualcuno mi aiuti”. Ora, quando io ho visto questo robot non è che ho pensato: “Guarda che bravi i ragazzi dell’Euroform che hanno progettato questo robot in modo che sappia ballare e parlare!”. Ho pensato: “Guarda che simpatico questo robot che sa parlare e ballare!”.

Io quindi direi che un robot, un’intelligenza artificiale ed un automa, si possano considerare animati secondo il terzo significato di animazione in quanto ci danno l’illusione di movimento e di vita, proprio come il personaggio sul quadernetto, e che quindi siano complementi d’agente.

                                                                                                                             

Il veicolo che odio di più

Parlando della differenza tra denotazione e connotazione, qualche giorno prima che finisse l’anno scolastico dicevo ai miei alunni di 1ª E che ci sono delle parti del discorso, come gli aggettivi qualificativi e gli avverbi di modo, che hanno naturalmente una loro dimensione più connotativa. E lo stesso vale per gli alterati  – diminutivi, vezzeggiativi, accrescitivi, ecc. E certi verbi, dicevo loro, hanno un significato più direttamente connotativo rispetto ad altri, che sono più neutri e distaccati. Poi abbiamo letto alcune descrizioni oggettive e alcune descrizioni soggettive. Tra le descrizioni oggettive, il libro di Antologia proponeva una descrizione tecnica della bicicletta e delle parti di cui è composta, tratta dalla Treccani. Mi è venuto in mente a un certo punto di fare insieme alla classe un gioco: trasformare in soggettiva la descrizione oggettiva della bicicletta, usando appunto aggettivi qualificativi, avverbi di modo, alterati, ecc. Ecco qui sotto quello che è venuto fuori. 

La bicicletta

Testo tratto e adattato dalla Treccani

(DESCRIZIONE OGGETTIVA)

Veicolo a due ruote gommate, poste una dietro l’altra, fatto di norma per una persona che, a cavalcioni su un sellino, aziona con la forza muscolare delle gambe la ruota posteriore mentre con le mani impugna il manubrio. La bicicletta si compone di varie parti. Il telaio porta la sella, la ruota posteriore rigidamente fissata e quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo, la scatola del movimento con la moltiplica e i pedali.

La bicicletta, il veicolo che odio di più

(DESCRIZIONE SOGGETTIVA)

Veicolo con due ruotacce gommate, poste banalmente l’una dietro l’altra, fatto per appena una sola persona che, a cavalcioni su un sellino scomodissimo, sfrutta ignobilmente la forza muscolare delle gambe per azionare la ruota posteriore mentre impugna il manubrio con le mani diventate tutte sudate e appiccicose. La bicicletta si compone di troppe inutili parti. Il telaio porta una sellaccia scomodissima, la ruota posteriore (un po’ troppo sottile e rigidamente e pericolosamente fissata) e, peggio ancora, quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo. Infine questi incoscienti ci hanno montato su una scatola del movimento con la moltiplica e degli scivolosissimi pedali. Insomma, soldi buttati!

[Questo breve articolo si p leggere anche sul blog della classe, qui: https://unsorrisoallalettura.altervista.org/il-veicolo-che-odio-di-piu/

Un altro articolo simile tra i miei taccuini lo trovi qui: https://www.mariovalentini.net/ricordo-di-gianni-celati-attraverso-i-racconti-dei-miei-studenti/

Qui invece un articolo sulle esperienze di Mark Twain con la bicicletta: https://www.mariovalentini.net/come-cadere-dalla-bicicletta-senza-romperla-su-un-racconto-di-mark-twain/ ]

Ricordo di Gianni Celati attraverso i racconti dei miei studenti

Il 3 gennaio 2022 ci lasciava Gianni Celati. Mi piace oggi ricordarlo attraverso alcuni pezzettini scritti dai miei studenti di seconda media. Avendo con loro discusso a lungo nel corso di quest’anno scolastico su cos’è il tempo, a novembre ho letto in classe il racconto “Tempo che passa”, tratto da Narratori delle pianure. Quindi ho lasciato da svolgere a casa un esercizio: scrivere una lettera a qualcuno mettendosi nei panni della protagonista del racconto. Qui di seguito alcune delle lettere, per come sono saltate fuori. Si possono leggere anche sul blog della classe, in questa sezione: http://unsorrisoallalettura.altervista.org/category/lettere-a/.

Chi fosse interessato, come diceva una mia anziana zia, a cose di scuola, può dare un’occhiata all’intero blog qui: http://unsorrisoallalettura.altervista.org/

Non bisogna sprecarlo di Laura P.

27 Novembre 1986

Cara Ludovica,

ti sei mai chiesta cos’è il tempo? L’altro giorno ci stavo riflettendo mentre rientravo a casa dopo una giornata di lavoro faticosa. Il mio quartiere è circondato da centri commerciali, distese di campagne e ville. Tra queste zone ci sono parecchie differenze. Ogni giorno mentre percorro la strada di ritorno per casa mi immergo in due realtà ben differenti. Nel centro commerciale c’è una gran confusione tra rumori di macchine, gente che cammina parlando e poliziotti privati che cercano di calmare il traffico, qui sembra che il tempo scorra più velocemente. Tutto cambia quando passo tra le villette, sembra che il tempo non passi mai per colpa del silenzio. Come se le persone stessero aspettando l’ora del pranzo o della cena. Più avanti ci sono delle ville più ricche, i giardini sono decorati con molti dettagli. Penso che queste persone sprechino il tempo a decorare le loro case  per nascondere la propria realtà. Non gira quasi nessuno nel mio quartiere e questo mi provoca molta tristezza. Secondo me il tempo va utilizzato per cose più importanti e non bisogna sprecarlo.

Com’è da te il quartiere? Credo che a Torino ci sia più movimento e vitalità rispetto a qui. Raccontami un po’.

Ti abbraccio forte,

Selena

Qui le lancette si spostano a fatica di Elia V.

Cara Ginevra,

spero che tu stia bene. Nella tua ultima lettera mi hai chiesto il mio parere sul tempo quotidiano. Beh, mia cara! Devo dirti che nel mio paese il tempo è come morto, immobile e tutti gli abitanti stanno rintanati nelle loro casette, compresi i miei genitori, aspettando che arrivi la fine dei loro giorni. Non so quanto tempo è passato ma, nel mio paese, non vedo più nessuno che sorride da molti mesi. Non si vede neanche un cane, tutto è fermo. Se guardi l’orologio noterai che le lancette si spostano a fatica. E le persone, per non disperare, si circondano di oggetti di plastica. Almeno, questa è la visione del mio paese, spero che a te le cose vadano un po’ meglio.

Un caro saluto,

la tua amica.

Sono davvero noiosi di Gabriele M.

21 Marzo 1980

Cara Diana,

come va la vita in America? La mia vita qui sicuramente è molto noiosa. Ogni volta che torno a casa dal lavoro con la macchina mi fermo e ascolto il tempo ed è talmente silenzioso che sembra che un minuto non passi mai. Mi capita di percorrere le vie di una piccola cittadina di nome Cicognolo, lì c’è un silenzio davvero strano, poi ci sono delle villette in cui a prima vista pensi che ci siano bambini che giocano, cani che abbaiano, ma niente, sono tutti rinchiusi nelle proprie case. Queste persone non fanno che ascoltare l’assenza dei rumori o il tempo che passa e questo fa sì che il tempo non passi mai; perciò aspettano che arrivi la colazione, il pranzo, la cena ed il momento di guardare la tv: gli unici momenti in cui non badano al silenzio o al tempo che passa. Qualche volta addirittura non me la sento di tornare a casa dai miei genitori, sono tali e quali alle persone rinchiuse in casa di cui ti ho parlato prima, di fatto proseguo fino a San Daniele Po e anche oltre. Non ce la faccio proprio a stare con loro, sono davvero noiosi, e io vorrei divertirmi, vorrei sentire un tempo che passa velocemente in cui accadono tante cose.

Spaventati da un minuto che non passa mai di Gian Pol L.

18 Aprile 1980.

Carissima Alice,

non ti scrivo da tanto tempo ma oggi sì, come stai? Io bene e come sta Peppino? Ho saputo che si è fatto male al piede e ora ascolta il tic e tac dell’orologio. Sai, in questi giorni quando vado a lavorare mi metto sempre ad ascoltare il tempo che passa. Ascolto le musichette nei piazzali e ogni tanto la voce di uno speaker che annuncia una vendita speciale, i fischietti dei poliziotti che smistano il traffico. In giro si vedono macchine, ma non si vedono cani né bambini, infatti gli abitanti vivono nascosti in quelle casette, uscendo allo scoperto come dei ladri solo per andare a lavoro o fare la spesa. Allora nello spazio riempito da quel silenzio abitativo c’è solo tempo che passa, perché il silenzio lo rende così lento che sembra non passi mai. La gente chiusa in casa non fa che pensare alla mancanza di rumori, aspettando il momento del pranzo o della cena o l’ora di guardare la televisione. Il tempo si allunga ancora di più come un elastico e gli abitanti si ritrovano là dentro spesso spaventati da un minuto che non passa mai. Questo è tutto per oggi ma ancora ci sono altre cose che succedono qui, ti scriverò in un’altra lettera che mi è finita la penna.

A presto e tanti saluti,

Cesarina

Io non mi sento al cento per cento di Greta G.

Cara Marta,

sono felice che tu ti sia trasferita a Napoli, è una bellissima città, mi auguro che tu stia bene, io non mi sento al cento per cento ma ti spiego meglio.

Da quando ho quel nuovo lavoro di cui ti ho parlato, passo spesso in mezzo a dei paesini sperduti della padana: è sempre il momento più difficile della giornata perché c’è troppo silenzio e mi metto ad ascoltare il tempo che passa.

Tutto questo silenzio è dovuto al fatto che le persone sono introverse, se parlassero il tempo scorrerebbe più velocemente come quando in piazza ho visto dei ragazzi divertirsi. Le persone stanno sempre in queste villette da sole ed impazziscono ad ascoltare il tempo che passa.

P.S: Spero di non averti annoiato con le mie parole. Stammi bene.

da parte di Greta

Non abbrutirti pure tu di Marcello F.

Cara Pinù,

ho voglia di raccontarti cosa mi è successo oggi tornando dal lavoro.

Inizio dalla fine: vedere dei ragazzi spensierati al bar di San Daniele mi ha fatto riflettere sul tempo. Ogni giorno come sai faccio la stessa strada per tornare a casa, e tutte le volte osservo le stesse cose e mi metto a pensare. Ma oggi vedendo quei ragazzi non ho più voglia di pensare e di giudicare niente.

Faccio ogni giorno 50 km, attraversando campagne desolate, vedo centri commerciali con i loro parcheggi, e vedo persone come robots, tutte uguali. Vedo villette tutte uguali e sento tanto silenzio. Le persone mi sembrano nascoste in casa e mi immagino che siano solo in attesa del pranzo, della cena o di altre cose da fare. E stanno ad aspettare. Ma pensandoci il tempo si allunga come un elastico e si ha paura che non passi mai.

Anche quando passo da Pieve San Giacomo ho la stessa sensazione e quando arrivo alla strada di casa mia, tiro dritto, non voglio entrare e vedere i miei genitori come in attesa della morte, immobili. Il vuoto intorno alle case mi sembra come una trappola. Il tempo è solo tempo, tempo senza più tempo, perché non va da nessuna parte.

Quindi ti prego non abbrutirti pure tu.

La Dad di Vanessa Ambrosecchio su Lucia Libri

Il 9 Luglio ho presentato da Prospero, a Palermo, Tutto un rimbalzare di neuroni di Vanessa Ambrosecchio (Einaudi). Dagli appunti è venuta fuori una recensione, pubblicata da Lucia Libri. Ne trascrivo qui l’inizio, rimandando al sito di Lucia Libri per la lettura integrale.

[per leggere l’articolo direttamente dal sito di Lucia Libri basta andare qui: https://www.lucialibri.it/2021/07/16/non-uno-di-meno-ambrosecchio/]

1. L’illustrazione mostra un ragazzo seduto su una sedia. Affacciato, guarda il cortile. Mentre scrive, osserva i suoi coetanei che giocano a pallone o vanno su un monopattino o si arrampicano. Ma il cortile non è un cortile reale e la finestra a cui sta affacciato il ragazzo è uno smartphone, lo schermo di un cellulare.

Il titolo del libro è Tutto un rimbalzare di neuroni. L’autrice è Vanessa Ambrosecchio. L’editore è Einaudi.

Altre informazioni presenti in copertina. Una citazione tratta dal libro stesso: “Hanno una strana vita, i miei alunni, da quando è cominciata la Dad”.

Non sto a riferire quel che la quarta di copertina o le bandelle interne riportano perché già gli elementi del paratesto fin qui citati parlano abbastanza chiaro ma se apri il libro, il frontespizio riporta il seguente sottotitolo: Il racconto di cosa ci ha tolto la didattica a distanza.

Il lettore che lo trovasse sul bancone di una libreria, già a leggere queste veloci indicazioni, avrebbe capito tutto: che è un libro sulla Dad, la famigerata Didattica a distanza di cui ogni famiglia ha avuto modo di fare esperienza. Ed è un racconto, non un saggio, non un libro tecnico né un manuale per addetti ai lavori.

Un romanzo? Può darsi. Forse un genere ibrido, che sta al confine tra letteratura, cronaca di un’esperienza, diario di bordo, riflessione.

Tutto questo potrebbe bastare e, in effetti, descriverebbe già bene il libro.

cover Tutto un rimbalzare di neuroni

Un libro sulla Dad? Rimescoliamo le carte

2. Ma vorrei provare a negare l’evidenza: scompaginare l’assunto rimescolando le carte.

Vorrei provare a sostenere che quello che avete davanti non è un libro sulla Dad.

È piuttosto un libro che utilizza la Dad come occasione per parlare di scuola.

E se l’esperienza della Didattica a distanza dà immediatamente l’avvio al racconto, poi è il fare scuola, in tutta la sua complessità, che prende piede. E il fare scuola anche prima della Dad, il fare scuola di sempre, in ogni condizione e circostanza.

Perché importa anche poco, alla fin fine, come e in che circostanze la scuola venga fatta. Questo è un libro sui ragazzi che vanno a scuola, sui docenti che fanno scuola e che poi, non potendo per un periodo recarsi fisicamente in quel luogo fisico chiamato scuola, si adattano a fare scuola da casa in maniera inedita, strana, in una maniera mai vista prima, arrangiandosi con quel che si può e per come si può.

Perché la scuola da sempre è così. Anzi la parola scuola, a dirla tutta, declinata al singolare, è una parola che non ha molto senso. La parola scuola ha senso solo declinata al plurale.

In quest’ultimo anno e mezzo abbiamo, certo, faticato. Abbiamo maledetto computer, connessioni, smartphone, social network quali whatsapp, ecc. E tutto questo c’è nel libro di Vanessa Ambrosecchio: c’è il racconto, che spesso fa ridere o sorridere, sulle difficoltà di connessione, sulla linea che cade, sugli studenti che si nascondono oscurandosi, sull’aspetto orribile che avevamo noi docenti durante le riunioni a distanza degli organi collegiali.

Ma quel che risulta subito chiaro è che la stranissima esperienza che ci è da poco capitata, l’insegnamento massiccio a distanza standosene chiusi a casa, non fa che ribadire, descrivere, rafforzare questo assunto: la Dad è stato solo un tentativo un po’ assurdo, abborracciato, improvvisato, e a cui siamo giunti del tutto impreparati, di provare a salvare il fare scuola in un momento in cui le nostre vite sono state travolte da qualcosa di inaspettato.

E quello di Vanessa Ambrosecchio, dunque, prima che sulla Dad, è del tutto e pienamente un libro sul fare scuola.

Le scuole sono lì dove si prova a impiantare esperienze educative con i ragazzi, dove si prova a far loro imparare a scrivere e a far di conto, dove si prova a dar loro una prospettiva di vita per il futuro. Se ci si trova in un campo profughi fatto di baracche di lamiera, senza libri, penne e quaderni, la scuola sarà lì. E sarà vera scuola. Se ci si trova in una piccola isola con dieci bambini in tutto, di età molto diversa, in una stanza, si farà scuola così. Le scuole sono lì dove si realizza l’esperienza concreta del fare scuola, con gli strumenti che si hanno a disposizione, nelle condizioni che ci sono date in sorte e partendo dal mettere a fuoco prima di tutto chi abbiamo davanti: i ragazzi e le ragazze, i nostri studenti.

La scuola, al singolare, non esiste

3La scuola, per come la vedo io, va declinata necessariamente al plurale perché non è sui programmi ministeriali che si basa, né su un edificio con le sue dotazioni, e forse nemmeno sull’imparare perfettamente a leggere e far di conto. La scuola è un’esperienza di relazione tra adulti e ragazzi. E questo nel libro di Vanessa Ambrosecchio è chiarissimo. Tutte le energie profuse da questa professoressa nel momento in cui le scuole chiudono e ci si trova ognuno barricato nelle propria casa, a distanza, con un’unica possibilità di tenersi in contatto, sono spese principalmente a tenere salvo e saldo un canale di comunicazione, per non spezzare il filo tra lei e loro e tenere in piedi una relazione ancora viva e diretta.

La scuola, al singolare, non esiste perché ogni classe ti chiama e ti reclama in modo diverso. Ogni ragazzo e ogni ragazza ti chiama e ti reclama in modo diverso.

O la scuola è multipla o non sussiste. Se la scuola non si sa pensare multipla, allora è la scuola che respinge, boccia, rifiuta, contro cui Don Milani e i ragazzi di Barbiana hanno a lungo lottato.

[se vuoi, puoi leggere l’intero articolo su Lucia Libri: https://www.lucialibri.it/2021/07/16/non-uno-di-meno-ambrosecchio/;

se vuoi leggere altri miei appunti che hanno a che fare con la scuola vai qui: c’è vita tra i banchi

se invece vuoi sapere cos’è Prospero, vai qui: https://www.prosperopalermo.it/]

Capuana, quattro viaggi straordinari e un’isola abitata da robot

L’altro giorno, in una libreria semivuota, una libreria per ragazzi, verso l’ora di chiusura, aspettavo che mia figlia finisse di guardare certe cose che le interessavano. Intanto anch’io davo un’occhiata ai libri sul banco. I titoli di due libretti mi hanno attratto. Come quando in una poesia due parole discordanti vengono messe una accanto all’altra creando con una figura retorica un’evidente contraddizione.

Il nome di Luigi Capuana, scrittore passato alla storia (scolastica) per essere stato una delle figure principali del verismo italiano, era associato a dei titoli che sembravano la perfetta negazione di quella storia scolastica. Un titolo faceva: La città sotterranea. Terzo viaggio fantastico. E l’altro: L’isola degli automi. Quarto viaggio fantastico. Mancavano gli altri due: il primo e il secondo viaggio. Ho poi scoperto che i quattro libri vengono venduti anche in cofanetto e che i titoli mancanti sono questi: Volando e Nel regno delle scimmie. Li ho prenotati ma non sono ancora arrivati. Li ha pubblicati la Splen edizioni nel 2016.

I due disponibili li ho presi subito. La vicenda mi intrigava. Sapevo bene, infatti, che Capuana è un autore capace di sorprese e di aperture inaspettate, che ha scritto alcune storie di vampiri e diversi libri per bambini e per ragazzi, oltre a diverse raccolte di fiabe.

Ma che potessi ritrovarmi a leggere, come nel caso della Città sotterranea, una vera e propria avventura in stile Jules Verne, in cui due ragazzini di campagna esplorano una lunga e profonda grotta in compagnia di un tizio che credono essere un cacciatore e che invece è uno scienziato, proprio non me l’aspettavo. E che nell’altro racconto, L’isola degli automi, un naufragio alla Robinson Crusoe si risolva con l’approdo in un’isola in cui un vecchio misantropo si è rifugiato con una popolazione di uomini meccanici, di robot insomma, mi è sembrato più che sorprendente.

Sono due libretti che credo possano reggere piuttosto bene ancora oggi e si potrebbero benissimo leggere alla scuola primaria, forse anche al primo anno di scuola media. Anche se sono un po’ più grandi, li leggerò presto ai miei studenti, ad alta voce: voglio vedere l’effetto che fanno a distanza di un secolo, fare la prova.

C’è stato un periodo in cui compravo libri, quasi sempre in edizione economica e di seconda mano, solo per leggere le introduzioni. Erano per lo più classici, e molti di essi erano cosiddetti classici per ragazzi. La gran parte era pubblicata dalla collana Rizzoli della BUR. Le introduzioni erano scritte da autori che mi piacevano e di cui mi premuravo di leggere tutto, ma proprio tutto, quello che avevano scritto. Poi, dopo l’introduzione, leggevo anche il libro introdotto.

Ho così cominciato a leggere una serie di scrittori che altrimenti non mi sarebbe mai venuto in mente di leggere. Molti di essi sono poi diventati delle mie fissazioni autonome.

Tutt’ora però, se mi capita di rileggerle, penso che quelle introduzioni sarebbero valse l’acquisto del libro anche se il libro non mi fosse piaciuto. Mi pare di poter dire che mi hanno insegnato come si può leggere un classico fuori dagli schemi consolidati. Ho così recuperato, in quegli anni, una serie di letture che mi ero perso da ragazzo. Autori di cui di solito ci si appassiona all’età di undici, dodici o tredici anni sono stati tra i miei preferiti tra i venticinque e i trent’anni.

Jerome K. Jerome e il piacere del suo continuo divagare per vie traverse l’ho scoperto grazie a un’introduzione di Giorgio Manganelli. Le introduzioni (e le traduzioni) di Gianni Celati mi hanno portato sulle tracce di Jack London, di Mark Twain e di un mucchio di altri autori americani vissuti tra Ottocento e inizio Novecento. Tramite lo stesso Manganelli e Cavazzoni ho avvicinato Pinocchio, scoprendo che era un capolavoro. E così via, l’elenco è lungo.

Dev’essere stato proprio per leggerne l’introduzione, scritta da Giuseppe Bonaviri, di cui mi era molto piaciuto Il sarto della stradalunga, che in quegli anni ho comprato un libretto di Capuana intitolato Scurpiddu.

Non posso mettere sullo stesso piano la devozione fanatica che ho per Le avventure di Hucklberry Finn, per Il richiamo della foresta o per Bartleby lo scrivano (di cui è responsabile appunto Gianni Celati) con il sottile piacere di un’inattesa scoperta che mi ha dato il libretto di Capuana (il quale, se devo dire la verità, più che piacermi non mi è dispiaciuto). Ma certamente anche l’introduzione di Bonaviri è una di quelle che ti insegnano a leggere fuori dagli schemi e che da sola vale l’acquisto del libro.

Scrive Bonaviri: “Capuana fu uno scrittore davvero onnivoro, in quanto si interessò di tutto, s’avventurò in ogni campo, anticipando un tipo d’intellettuale molto vicino al nostro modo di sentire di uomini di oggi immersi in ampi spazi dello scibile, che vanno dalla cosmologia alla fisica relativistica, dalla psicanalisi alla biologia, dalla storia all’area folclorico-favolistica e documentaria, ecc. La sua fu davvero una acuta e ricognitiva sensibilità diretta verso ogni manifestazione nel campo dell’Immaginario e dell’Espressione”.

Scurpiddu è un libro il cui titolo mi dà un po’ sui nervi per quel dialettismo esibito. Vuol dire sterpo, ramo secco, ed è il soprannome dato al piccolo protagonista del romanzo dalla gente della masseria in cui a un certo punto si trova a vivere. Gli è stato affibbiato per la sua magrezza. La mia edizione risale al 1980 e non so proprio se questo libro sia ancora in circolazione. Si tratta di un romanzo per ragazzi che, per il suo autore, “non è poi destinato soltanto ai ragazzi”. Un po’ come fa Mark Twain, che introducendo Le avventure di Tom Sawyer avverte: “benché questo libro sia destinato soprattutto per il divertimento di ragazzi e ragazze, spero che non verrà disdegnato da uomini e donne”.

La storia ha degli elementi narrativi tipici della narrativa per ragazzi dell’800: Scurpiddu è un senza famiglia adottato da una coppia di contadini possidenti che in lui rivedono il figlio morto di malattia qualche anno prima. Si parla di fame, di malannata, di lavoratori-bambini semianalfabeti. Capuana ne avrebbe potuto fare una storia di abbandono senza redenzione, di miseria senza riscatto, e invece dà a questo regazzino una via d’uscita, la possibilità di un’evoluzione. Non incatena il suo destino alla sua nascita, come fa Verga con la gran parte dei suoi protagonisti e, sebbene la storia si possa pienamente inscrivere nella tradizione del naturalismo ottocentesco, c’è un piacere dell’affabulazione che ha tutt’altre radici.

Ancora Bonaviri: “Anche se confrontato con Giovanni Verga – come usualmente fa una critica accademicamente indottrinata e pronta a creare statici e immutabili, per quella!, schemi interpretativi – in certo senso il Capuana ci guadagna. […] Il chiuso mondo contadino, o di poveri pescatori, del Verga, i loro drammi tesi ad una forma di imbrigliante religione della roba, la loro visione di vita tutta limitatamente terrestre, o interrestritasi nel natio borgo, si fa sempre più lontana dal nostro modo di sentire, di concepire il mondo in un’ampiezza di scienze e mitologie, e misteri che ci assillano”.

Ricordo uno scritto di Bonaviri, pubblicato su un numero della rivista Nuove Effemeridi (molti a Palermo ce l’avranno presente), che iniziava così: “Le due grandi realtà della Sicilia, fino a un recente passato, presenti d’altronde in tutti i paesi poveri sono state: la fame e gli spiriti”.

Poi continuava: “A Mineo, mio paese, nel Catanese, dove sono vissuto sino a 33 anni, o si parlava di malannata, di pioggia fertilizzante le terre, di nubi che indicavano la mutazione del tempo, o si parlava di spiriti. […] Per noi bambini, nel vicolo nero di Sopra le Mura c’era un vecchietto, massaro Giuseppe, che abitava in un catoio col suo asino, che comandava gli spiriti, ne era l’intermediario. Tanto che noi, a sera inoltrata, quando lui dormiva, lo andavamo apposta a svegliare per chiedergli: O massaro Giuseppe, è vero che parlate con gli spiriti? Come sono gli spiriti? Il vecchio s’alzava mandandoci maledizioni dietro la porta”.

Sembra di leggere un passo di Scurpiddu, che ha anche una sua dimensione da referto etno-antropologico. Come quando parla delle Nonne, “esseri fantastici a cui la superstizione popolare attribuisce la facoltà di entrare nelle case pel buco della serratura”. O quando parla dell’arrivo in paese dello zanni (cioé uno zingaro, un camminante), che era anche ceraulo (ovvero incantatore di serpenti): “alla vista delle serpi che si rizzavano snodandosi e si versavano fuori della cassetta, [Scurpiddu] dié un gran strillo. Lo zanni le afferrava, se le avvolgeva attorno al collo e alle braccia, zufolando sommessamente, monotonamente, intanto che con l’indice e il pollice della mano destra prendeva una serpe per la testa facendola divincolare penzoloni, mentre con la sinistra ne impugnava un’altra pel collo a guisa di spada…”.

A differenza dei Viaggi straordinari, mi sembra che Scurpiddu (‘sto nome dialettale proprio non lo sopporto!) sia un libro che si può avvicinare soprattutto per interesse storico-letterario. Offre molti spunti su cui riflettere, ma è un interesse di tipo specialistico. Come dire: per cultori della materia. Per i Viaggi straordinari sospetto il contrario. Farò la prova. Come detto: userò gli studenti delle mie classi come cavie. Poi vi faccio sapere.

Perché lo scrittore Luigi Capuana mi è più simpatico di Verga

Ho di Giovanni Verga e di Luigi Capuana, per lo più, vecchie nozioni di tipo scolastico che ogni anno rinverdisco sempre un po’ svogliatamente in classe, tirando fuori un paio di brani antologici da sottoporre ai miei studenti, rispolverando i soliti argomenti triti: la poetica del verismo e l’uso del discorso indiretto libero, il rapporto tra lingua scritta e lingua parlata, il ciclo dei vinti, il pessimismo verghiano, il destino immutabile dei deboli ovvero l’ideale dell’ostrica (per la quale è impossibile abbandonare lo scoglio), ecc. Il programma me lo impone. Il volume di Letteratura me li piazza sotto gli occhi intimandomi di parlarne. E io lo faccio con una certa noia.

Che poi non è vero. Mi mette sotto gli occhi solo Verga. Lui infatti occupa saldamente il canone, non si può saltare. Capuana rimane invece laterale, è considerato una specie di fratello di minore importanza, piuttosto misconosciuto dalla scuola, probabilmente anche per certi pregiudizi critici duri a morire e che si sono incancreniti da decenni. Giudizi che si sono incrostati sulle loro opere e su cui ancora non è stato versato abbastanza viakal.

I loro due nomi, ci sto pensando ora, fanno parte della mia stessa biografia lavorativa. In una scuola intitolata a Verga infatti ho insegnato per sei ore settimanali circa sette anni fa, a Capuana è invece intitolata la scuola in cui insegno tutt’ora e in cui sono titolare ormai da molto tempo.

Al di là della scuola però non li ho frequentati molto e l’unico vero aggiornamento che ho fatto dai tempi dell’Università ha poco a che fare con la letteratura, e riguarda piuttosto la fotografia. Diversi anni fa ho infatti trovato su una bancarella un libro sull’attività fotografica di Capuana, Verga e De Roberto, edito da Edikronos e curato da Andrea Nemiz. Poi, nel 2006, ne ho comprato un altro. Ero andato a Trapani, al museo Pepoli, proprio vedere una mostra che esponeva oltre alle fotografie di Capuana e Verga, anche quelle realizzate da Samuel Butler tra il 1892 e il 1894 in Sicilia. E ho acquistato il catalogo. Poi, negli anni successivi, ho continuato a lasciare perdere Verga mentre su Capuana un po’ ho iniziato a documentarmi, scoprendo che è un autore che riserva diverse sorprese.

Tra i due dunque, ormai è chiaro, mi fa più simpatia Capuana. La critica invece osanna Verga, perché ha portato alla migliore espressione quelle idee veriste di cui lo stesso Capuana è stato il primo e migliore teorizzatore (mi par di ricordare così, dai tempi della scuola). Verga, dicono infatti molti critici, ha portato a compimento con la sua opera quelle stesse idee veriste che Capuana avrebbe voluto realizzare, senza riuscirci mai pienamente. Boh, è anche possibile, chissà!

Io di opere di Verga, tra liceo e Università, ne ho lette molte, dalle novelle di Vita dei campi a I Malavoglia a Mastro Don Gesualdo. Era obbligatorio leggere queste tre opere per arrivare al diploma, e poi anche alla laurea. E devo dire che, a leggerle, bisogna riconoscere che c’è effettivamente in quelle opere una coerenza e un’unità di intenti che le rende qualcosa di compatto e risolto, progettualmente definito e chiaro.

Capuana invece non aveva la stessa costanza, la stessa capacità di battere una strada coerente, sempre la stessa, con ostinata progettualità. Per questo mi è simpatico. Capuana si inoltrava in mille percorsi, si lasciava attrarre dagli intreressi più svariati, con entusiasmo e sempre nuova curiosità. E secondo me, se lasciamo perdere gli sviluppi storico-critici legati al verismo, Capuana è un figura molto più interessante di Verga. Ed è un personaggio capace di offrire ancora oggi qualche sorpresa. Verga no. Con lui non credo ci possano essere sorprese.

Ma, anche se non è della fotografia che volevo parlare, continuiamo a parlare di fotografia. Per Verga la fotografia è un passatempo che non ha particolare rilevanza, su cui non c’è particolare investimento personale. Capuana invece ci si intriga, ci perde ore e sonno e fatiche, ci si dedica con animo da sperimentatore, sottopone alla prova personale tutte le novità tecniche di cui viene a conoscenza.

Scrive Andrea Nemiz: “la passione sviscerata di Capuana per la fotografia – in certi periodi rischiava di sconfinare perfino nella mania – lo porta a scrivere di questa attività anche nelle lettere agli amici e, addirittura, a confidar loro formule, o a comunicare le novità riguardanti le macchine e le lastre fotografiche scoperte nei suoi viaggi a Milano o a Firenze”.

Più di una volta, per lettera, Verga lo rimprovera, gli dice che perde tempo in occupazioni diverse dalla letteratura, sprecando quella che è la sua vocazione autentica e il suo talento. Un giorno, di fronte agli entusiasmi per delle nuove tecniche da stampatore appena sperimentate che Capuana gli descrive per lettera, Verga risponde con un’ironia per nulla dissimulata: “Ho visto le tue prove all’acqua forte, e te ne faccio i miei complimenti. Ora dovresti pensare a comprarti un torchio per stampare le prove. Pazienza la spesa, ma almeno segneresti una data nella storia della nostra incisione su zinco, e se non la segnerai in quella della letteratura, pazienza ancora! non vorrà dire che non ne avevi l’ingegno, ma che hai pensato meglio di rivolgerlo a più utili e gloriose imprese”.

Nel 1880, tornato in Sicilia da Firenze, Capuana apre a Mineo (il suo paese d’origine) un atelier fotografico che chiama, con un po’ di prosopopea, “Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Prof. Luigi Capuana”, e c’è in questo nome un atteggiamento che non si sa bene come inquadrare: da innovatore e da ciarlatano? Ci rivela come l’intera figura di Capuana fosse intimamente romanzesca e letteraria.

A Mineo, nel suo laboratorio di fotografia, passa intere giornate. Qui sperimenta la stereoscopia, costruisce artigianalmente una rudimentale macchina fotografica e un ingranditore per la stampa delle lastre negative, mette a punto in camera oscura dei procedimenti attraverso i quali stampa delle strane forme in cui crede di ravvisare l’immagine di spiriti o fantasmi. Alla morte e allo spirtismo dedica numerose prove: dalle foto scattate a una giovane posseduta, a quella in cui ritrae se stesso sdraiato su un divano come se fosse morto (era uno scherzo fatto agli amici, a cui manda la foto, e pare che D’Annunzio non ci sia cascato, Verga invece sì), a quelle in cui ritrae veramente corpi morti: di uccelli e perfino di una bambina riesumata dal sepolcro per volere dei suoi genitori.

Luigi Capuana in posa di finto morto – Autoritratto – 1887
(foto dal web)

Bisogna dire che in quegli anni Capuana non è certo l’unico a far convivere un atteggiamento razionalista e positivista con interessi di occultismo e spiritismo, e a mediare tutto questo con le tecniche fotografiche. Esisteva tutto un filone di ricerche fotografiche che, oltre a dedicarsi a fotografare il visibile, si incaponiva nel tentativo di catturare l’invisibile: fantasmi, spiriti, apparizioni. O che si dedicava a inscenare trucchi, falsificazioni, messiscene giocando con le tecniche dell’ottica e dello sviluppo.

E Capuana, come ciarlatano appassionato di occultismo oltre che come sperimentatore di tecniche fotografiche, non è da meno di altri pseudo-scienziati. I suoi pericolosi fallimenti li racconta lui stesso negli scritti dedicati a questo argomento: Spiritismo? del 1884 (De Roberto gli scriverà ironizzando gli spiriti saranno irritatissmi per quel “?”) e Mondo occulto. Tra tutti gli esperimenti, il più noto è quello che riguarda Beppina Poggi, una ragazza di diciotto anni presso la cui famiglia Capuana stava in pensione a Firenze. Avendo notato in lei doti eccezionali da sonnambula Capuana comincia a sottoporla a prove talmente estenuanti da minarne la salute. Racconta infatti lui stesso: “Non sospettavo neppure che, a forza di condurre quell’organismo all’estremo limite dell’allucinazione provocata, lo mettevo a repentaglio di cadere, forse irrimediabilmente, nella vera pazzia”.

Ma questo lato cialtrone e irresponsabile nasconde una vera e originaria passione, coltivata fin da ragazzo, per il fantastico, ed è ciò che fa positivamente deragliare la produzione narrativa di Capuana dai percorsi, condivisi con Verga e De Roberto, del naturalismo e del verismo (in cui ancora oggi è a torto incasellato dalla critica più pigra) a tutta una serie di aperture e filoni narrativi che Verga non è proprio capace di sfiorare: le fiabe, la narrativa per ragazzi, i racconti del fantastico (alcuni dei quali prefigurano la fantascienza). Sono racconti che, oggi, per certi versi lo rendono forse ben più attuale di Verga.

Emile Zola fotografato da Capuana nel suo studio di via Arcione a Roma- 1894

Insomma, Capuana legge Balzac e Zola e introduce in Italia il naturalismo scrivendo sui quotidiani con cui collabora piccoli saggi e pamphlet (è stato anche giornalista, prima della Nazione di Firenze, poi del Corriere della Sera). Così conduce Verga e De Roberto sulla strada del verismo e del naturalismo (è Capuana infatti il maestro e l’anticipatore). Accosta di persona Zola, di cui diventa amico (pare che gli abbia regalato delle fotografie di donne romane utilizzate per scrivere Roma) e si dedica in prima persona a opere di impianto naturalista. Ma poi, grazie al proliferare dei suoi interessi che spaziano in molte direzioni diverse, arriva ad incorciare e affiancare in diverse prose (per lo più novelle e racconti brevi) lo Stoker di Dracula, le fantasticherie scientifiche di Jules Verne, lo Stevenson dei racconti d’avventura.

Ed è appunto di alcuni tra questi racconti che volevo parlare quando ho iniziato a scrivere. Ma mi son perso. Ne parlerò nei prossimi appunti, se riesco.

[per scrivere questi appunti ho letto e/o consultato:

  • Andrea Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto Fotografi, Palermo, Edikronos, 1982
  • Renato Lo Schiavo, Michele Fundarò, Marco Fragonara, La scrittura dell’occhio. Utopisti e Veristi dalla penna alla lastra, Trapani, Ignazio Grimaldi Editore, 2006
  • Giuseppe Bonaviri, Introduzione a Scurpiddu, Milano, Rizzoli (BUR), 1980
  • Fabrizio Foni, Lo scrittore e/è il medium. Appunti su Capuana spiritista consultabile al seguente link: https://media.agiati.org/page/attachments/agiati-atti-a-2007-art-13-foni.pdf
  • Giovannella Desideri, “Il fantastico” in Letteratura Italiana (diretta da Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)
  • Alberto Abruzzese e Carlo Grassi, “La fotografia” in Letteratura Italiana (diretta da Alberto Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)]