ZACentrale, lo spazio dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo la cui programmazione da qualche mese è stata affidata alla Fondazione Merz, ha inaugurato martedì 15 Febbraio un “palinsesto di incontri, dibattiti e contaminazioni tra i territori della narrazione, i linguaggi dell’arte e della cultura contemporanea”, negli spazi del vicino Istituto Gramsci. Il primo ospite è stato l’artista, architetto e regista cileno Alfredo Jaar che ha proposto un percorso dal titolo Cultura=Capitale? Ci sono stato, e ho preso un po’ di appunti che trascrivo qui.
Martedì 15 Febbraio, ore 18 circa. L’annuncio “ingresso libero fino a esaurimento posti” mi convince a sbrigarmi in fretta e schiodarmi da casa con un po’ d’anticipo.
Arrivo presto, dunque, nel vialone principale dei Cantieri Culturali della Zisa. Passo prima accanto allo ZACentrale, dando una sbirciata al padiglione. Da qualche tempo le due grandi vetrate d’ingresso allo spazio espositivo sono sormontate da una scritta al neon. È un’opera di Alfredo Jaar dal titolo Due o tre cose che so sui mostri. Riporta una frase tratta (un po’ alla lontana) da Antonio Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri”.
Il capannone dello ZACentrale e quello in cui si trova l’Istituto Gramsci distano forse nemmeno cinquanta metri. In questo momento sono uniti dal comune riferimento a Antonio Gramsci. Ma non si sa ancora quanto durerà: l’Istituto Gramsci infatti è ancora una volta a rischio di chiusura; l’opera di Alfredo Jaar invece credo sia esposta lì a tempo determinato e prima o poi traslocherà.
(Che in una città così povera di biblioteche pubbliche e di quartiere un luogo come l’Istituto Gramsci possa rischiare di chiudere mi sembra, al di là di tutte le ragioni, sempre che ci siano, una cosa del tutto irragionevole).

Arrivo presto, dicevo. Entro. La sala è piena a metà. Mi siedo a uno dei banchi per la consultazione dei libri, su cui posso appoggiare il mio taccuino. Passano dieci minuti e la sala diventa pienissima. Alfredo Jaar parla in un italiano incerto, decide presto di continuare in spagnolo.
Poi dà l’avvio alle immagini e, da quel momento, tutto il suo discorso lo farà in inglese.
Comincia proprio a parlare di Gramsci e a far vedere le opere che gli ha dedicato: un gran numero di ritratti, schizzi e disegni, alcuni dei quali sono andati a finire sulle copertine di alcune edizioni delle Lettere o dei Quaderni.
La frase che ora sta all’entrata dello ZACentrale, racconta, l’aveva già utilizzata per dei lavori fatti a Roma per il MAXXI. C’era la città piena di cartelloni con questa frase. Per un mese i giornali si erano chiesti chi l’avesse fatta mettere e che cosa potesse annunciare. Qualche giornalista aveva detto che evidentemente si trattava della nascita di un nuovo partito di ispirazione comunista. Racconta Alfredo Jaar che il direttore del museo (o era il curatore della mostra?) lo aveva chiamato e gli aveva detto: “Tu lo devi dire che è una tua opera”. Ma lui aveva continuato a star zitto. Erano passate un paio di settimane, i cartelloni continuavano a comparire in tutta la città. Qualche giornalista aveva iniziato ad affermare che era una campagna pubblicitaria del Manifesto, noto quotidiano comunista. Lo avevano chiamato di nuovo: “Lo devi dire che è una tua opera!”. Ma lui niente. Tra ipotesi e illazioni, è passato circa un mese prima che venisse rivelato che i cartelloni che si incontravano da tempo per la strade di Roma erano un’opera di quel famoso artista cileno che faceva di nome Alfredo Jaar.
Era la fine del 2018, i giorni del primo governo Conte, di cui Salvini era ministro degli Interni. L’opera faceva parte di un progetto intitolato La strada. Dove si crea il mondo. Recupero qualche informazione on-line, da un articolo di Artribune, e vengo a sapere che Chiaroscuro (questo è il titolo che Jaar aveva dato al suo “intervento urbano”) era “un’invasione per la Capitale di manifesti verdi e rossi” e che i manifesti con la frase di Gramsci erano stati “ospitati dal circuito comunale delle affissioni cittadine fino al 24 dicembre 2018, e distribuiti liberamente sotto forma di poster al MAXXI per tutta la durata della mostra”.
Estraggo dallo stesso articolo alcune precisazioni dello stesso Jaar su questo lavoro, che personalmente faccio fatica a chiamare “opera”:
In tempi come questi, in cui il fascismo sembra riaffermarsi, torno sempre a Gramsci e al suo pensiero, all’ombra del quale si è sviluppato il mio lavoro. La dichiarazione che ho usato per il mio intervento pubblico a Roma è una riflessione perfetta su quello che penso stia accadendo oggi in Italia. La frase originale di Gramsci era la seguente: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Questa dichiarazione è stata tradotta in molte lingue e la mia versione preferita era in francese: “Le vieux monde se meurt, le nouveau monde tarde à apparaître et dans ce clair-obscur surgissent les monstres”. Poi per caso, ho scoperto una versione italiana, traduzione di quella francese, che mi è piaciuta moltissimo perché al posto della parola interregno usa chiaroscuro, e al posto di “i fenomeni morbosi più svariati” usa “mostri”. Ho usato questa traduzione perché la trovo potente e poetica allo stesso tempo.
Ilaria Bulgarelli, “Cosa significano quei manifesti su Gramsci che hanno invaso Roma?” – Artribune – 20 Dicembre 2018-
https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2018/12/cosa-significano-quei-manifesti-su-gramsci-che-hanno-invaso-roma/
Mi chiedo che opera d’arte sia questa, che non è propriamente un’opera d’arte. E poi, generalizzando, di conseguenza: che arte è questa, che non è propriamente un’arte? E la domanda si farà sempre più precisa man mano che guardo le immagini e ascolto. Che arte è questa che non è un dipinto, né un ready-made, né un’istallazione e nemmeno una performance? È un’arte che prevede un intervento su uno spazio fisico (la città e i suoi spazi pubblicitari) ma che non si esaurisce in questo. Più che un intervento su uno spazio concreto è uno spazio mentale quello su cui Alfredo Jaar, comincio a capire, lavora. Lo spazio dei discorsi pubblici, delle notizie e delle opinioni. È la politica delle immagini, dirà nel corso dell’incontro, quel che gli interessa. Va bene, le immagini. Ma lì, nel lavoro per il MAXXI, non era tanto un’immagine ad essere il vero centro dell’intervento. Il cuore dell’intervento era un manifesto, affisso dovunque per le strade di Roma, senza spiegazioni né indicazioni precise, in attesa di vedere l’effetto che fa.
L’opera d’arte come innesco o miccia, insomma, in attesa di qualche reazione, qualunque essa fosse.
È anche questa l’arte contemporanea, comincio a capire. E devo dire che la qual cosa non mi dispiace.
Saranno ormai le 19 circa e Alfredo Jaar va avanti con il suo racconto. Intreccia immagini a storie, alterna aneddoti e battute a riflessioni su alcuni degli interventi artistici che ha portato avanti negli ultimi anni in varie parti del mondo. È abilissimo a legare segni e parole, dosando pieni e vuoti, pause e accelerazioni, e soprattutto refrain. La sua è un’arte retorica molto efficace: risulta impercettibile. Si dispiega nascondendosi.
Racconta di un intervento di qualche anno fa, realizzato nella cittadina di Skoghall in Svezia; poi di un progetto sulla Cupola del Marche Bonsecours di Montreal.

Il ritmo della narrazione è scandito da alcune immagini ripetute, che funzionano come pause o cesure tra un racconto e l’altro. Una sequenza di poche immagini, sempre la stessa. Una breve sequenza che, in un montaggio rallentato, silenzioso e sospeso, mostra prima una nuotatrice che prende su un bel respiro, per un attimo, forse prima di un tuffo (è un frammento di qualche secondo) e poi (in sequenza) le foto del corpo morto del piccolo Alan Kurdi disteso sulla spiaggia e quelle di un poliziotto che lo prende in braccio e lo porta via. La sequenza è lunga il tempo di un una brevissima immersione.
Se il breve frame della nuotatrice, di cui nulla sappiamo, è per noi un piccolo enigma, i due-tre scatti del piccolo Alan Kurdi sono ben conosciuti, li abbiamo visti centinaia di volte, sono stati riproposti dalla stampa e dalle televisioni di mezzo mondo. Ormai, quando si riaffaccia su qualche social media, passa quasi inosservata, come un rumore di fondo indistinto nell’ingorgo quotidiano di opinioni, immagini e discorsi fatti in pubblico e destinati al macero nel volgere di pochi secondi. Eppure, ripresentata da Alfredo Jaar in questo brevissimo montaggio di pochi frammenti, in questo refrain rallentato che torna e ritorna scandendo il ritmo e l’alternanza dei racconti, è come se quella foto ci fosse restituita (come dire?) ripulita. Trova una presenza nuova e può riprendere a comunicare, parlare, significare qualcosa.
Quella foto annuncia un discorso che verrà fatto tra un po’? O forse Jaar l’ha messa lì solo per chiamarci in causa? La ripropone, come un interrogativo che chiede risposta? O vuole salvarla dallo smemoramento? Non lo sappiamo ancora cosa ci voglia dire e quale piega debba prendere il suo racconto, però funziona.
(seguirà, forse, una seconda parte con la continuazione dell’incontro)