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Capuana, quattro viaggi straordinari e un’isola abitata da robot

L’altro giorno, in una libreria semivuota, una libreria per ragazzi, verso l’ora di chiusura, aspettavo che mia figlia finisse di guardare certe cose che le interessavano. Intanto anch’io davo un’occhiata ai libri sul banco. I titoli di due libretti mi hanno attratto. Come quando in una poesia due parole discordanti vengono messe una accanto all’altra creando con una figura retorica un’evidente contraddizione.

Il nome di Luigi Capuana, scrittore passato alla storia (scolastica) per essere stato una delle figure principali del verismo italiano, era associato a dei titoli che sembravano la perfetta negazione di quella storia scolastica. Un titolo faceva: La città sotterranea. Terzo viaggio fantastico. E l’altro: L’isola degli automi. Quarto viaggio fantastico. Mancavano gli altri due: il primo e il secondo viaggio. Ho poi scoperto che i quattro libri vengono venduti anche in cofanetto e che i titoli mancanti sono questi: Volando e Nel regno delle scimmie. Li ho prenotati ma non sono ancora arrivati. Li ha pubblicati la Splen edizioni nel 2016.

I due disponibili li ho presi subito. La vicenda mi intrigava. Sapevo bene, infatti, che Capuana è un autore capace di sorprese e di aperture inaspettate, che ha scritto alcune storie di vampiri e diversi libri per bambini e per ragazzi, oltre a diverse raccolte di fiabe.

Ma che potessi ritrovarmi a leggere, come nel caso della Città sotterranea, una vera e propria avventura in stile Jules Verne, in cui due ragazzini di campagna esplorano una lunga e profonda grotta in compagnia di un tizio che credono essere un cacciatore e che invece è uno scienziato, proprio non me l’aspettavo. E che nell’altro racconto, L’isola degli automi, un naufragio alla Robinson Crusoe si risolva con l’approdo in un’isola in cui un vecchio misantropo si è rifugiato con una popolazione di uomini meccanici, di robot insomma, mi è sembrato più che sorprendente.

Sono due libretti che credo possano reggere piuttosto bene ancora oggi e si potrebbero benissimo leggere alla scuola primaria, forse anche al primo anno di scuola media. Anche se sono un po’ più grandi, li leggerò presto ai miei studenti, ad alta voce: voglio vedere l’effetto che fanno a distanza di un secolo, fare la prova.

C’è stato un periodo in cui compravo libri, quasi sempre in edizione economica e di seconda mano, solo per leggere le introduzioni. Erano per lo più classici, e molti di essi erano cosiddetti classici per ragazzi. La gran parte era pubblicata dalla collana Rizzoli della BUR. Le introduzioni erano scritte da autori che mi piacevano e di cui mi premuravo di leggere tutto, ma proprio tutto, quello che avevano scritto. Poi, dopo l’introduzione, leggevo anche il libro introdotto.

Ho così cominciato a leggere una serie di scrittori che altrimenti non mi sarebbe mai venuto in mente di leggere. Molti di essi sono poi diventati delle mie fissazioni autonome.

Tutt’ora però, se mi capita di rileggerle, penso che quelle introduzioni sarebbero valse l’acquisto del libro anche se il libro non mi fosse piaciuto. Mi pare di poter dire che mi hanno insegnato come si può leggere un classico fuori dagli schemi consolidati. Ho così recuperato, in quegli anni, una serie di letture che mi ero perso da ragazzo. Autori di cui di solito ci si appassiona all’età di undici, dodici o tredici anni sono stati tra i miei preferiti tra i venticinque e i trent’anni.

Jerome K. Jerome e il piacere del suo continuo divagare per vie traverse l’ho scoperto grazie a un’introduzione di Giorgio Manganelli. Le introduzioni (e le traduzioni) di Gianni Celati mi hanno portato sulle tracce di Jack London, di Mark Twain e di un mucchio di altri autori americani vissuti tra Ottocento e inizio Novecento. Tramite lo stesso Manganelli e Cavazzoni ho avvicinato Pinocchio, scoprendo che era un capolavoro. E così via, l’elenco è lungo.

Dev’essere stato proprio per leggerne l’introduzione, scritta da Giuseppe Bonaviri, di cui mi era molto piaciuto Il sarto della stradalunga, che in quegli anni ho comprato un libretto di Capuana intitolato Scurpiddu.

Non posso mettere sullo stesso piano la devozione fanatica che ho per Le avventure di Hucklberry Finn, per Il richiamo della foresta o per Bartleby lo scrivano (di cui è responsabile appunto Gianni Celati) con il sottile piacere di un’inattesa scoperta che mi ha dato il libretto di Capuana (il quale, se devo dire la verità, più che piacermi non mi è dispiaciuto). Ma certamente anche l’introduzione di Bonaviri è una di quelle che ti insegnano a leggere fuori dagli schemi e che da sola vale l’acquisto del libro.

Scrive Bonaviri: “Capuana fu uno scrittore davvero onnivoro, in quanto si interessò di tutto, s’avventurò in ogni campo, anticipando un tipo d’intellettuale molto vicino al nostro modo di sentire di uomini di oggi immersi in ampi spazi dello scibile, che vanno dalla cosmologia alla fisica relativistica, dalla psicanalisi alla biologia, dalla storia all’area folclorico-favolistica e documentaria, ecc. La sua fu davvero una acuta e ricognitiva sensibilità diretta verso ogni manifestazione nel campo dell’Immaginario e dell’Espressione”.

Scurpiddu è un libro il cui titolo mi dà un po’ sui nervi per quel dialettismo esibito. Vuol dire sterpo, ramo secco, ed è il soprannome dato al piccolo protagonista del romanzo dalla gente della masseria in cui a un certo punto si trova a vivere. Gli è stato affibbiato per la sua magrezza. La mia edizione risale al 1980 e non so proprio se questo libro sia ancora in circolazione. Si tratta di un romanzo per ragazzi che, per il suo autore, “non è poi destinato soltanto ai ragazzi”. Un po’ come fa Mark Twain, che introducendo Le avventure di Tom Sawyer avverte: “benché questo libro sia destinato soprattutto per il divertimento di ragazzi e ragazze, spero che non verrà disdegnato da uomini e donne”.

La storia ha degli elementi narrativi tipici della narrativa per ragazzi dell’800: Scurpiddu è un senza famiglia adottato da una coppia di contadini possidenti che in lui rivedono il figlio morto di malattia qualche anno prima. Si parla di fame, di malannata, di lavoratori-bambini semianalfabeti. Capuana ne avrebbe potuto fare una storia di abbandono senza redenzione, di miseria senza riscatto, e invece dà a questo regazzino una via d’uscita, la possibilità di un’evoluzione. Non incatena il suo destino alla sua nascita, come fa Verga con la gran parte dei suoi protagonisti e, sebbene la storia si possa pienamente inscrivere nella tradizione del naturalismo ottocentesco, c’è un piacere dell’affabulazione che ha tutt’altre radici.

Ancora Bonaviri: “Anche se confrontato con Giovanni Verga – come usualmente fa una critica accademicamente indottrinata e pronta a creare statici e immutabili, per quella!, schemi interpretativi – in certo senso il Capuana ci guadagna. […] Il chiuso mondo contadino, o di poveri pescatori, del Verga, i loro drammi tesi ad una forma di imbrigliante religione della roba, la loro visione di vita tutta limitatamente terrestre, o interrestritasi nel natio borgo, si fa sempre più lontana dal nostro modo di sentire, di concepire il mondo in un’ampiezza di scienze e mitologie, e misteri che ci assillano”.

Ricordo uno scritto di Bonaviri, pubblicato su un numero della rivista Nuove Effemeridi (molti a Palermo ce l’avranno presente), che iniziava così: “Le due grandi realtà della Sicilia, fino a un recente passato, presenti d’altronde in tutti i paesi poveri sono state: la fame e gli spiriti”.

Poi continuava: “A Mineo, mio paese, nel Catanese, dove sono vissuto sino a 33 anni, o si parlava di malannata, di pioggia fertilizzante le terre, di nubi che indicavano la mutazione del tempo, o si parlava di spiriti. […] Per noi bambini, nel vicolo nero di Sopra le Mura c’era un vecchietto, massaro Giuseppe, che abitava in un catoio col suo asino, che comandava gli spiriti, ne era l’intermediario. Tanto che noi, a sera inoltrata, quando lui dormiva, lo andavamo apposta a svegliare per chiedergli: O massaro Giuseppe, è vero che parlate con gli spiriti? Come sono gli spiriti? Il vecchio s’alzava mandandoci maledizioni dietro la porta”.

Sembra di leggere un passo di Scurpiddu, che ha anche una sua dimensione da referto etno-antropologico. Come quando parla delle Nonne, “esseri fantastici a cui la superstizione popolare attribuisce la facoltà di entrare nelle case pel buco della serratura”. O quando parla dell’arrivo in paese dello zanni (cioé uno zingaro, un camminante), che era anche ceraulo (ovvero incantatore di serpenti): “alla vista delle serpi che si rizzavano snodandosi e si versavano fuori della cassetta, [Scurpiddu] dié un gran strillo. Lo zanni le afferrava, se le avvolgeva attorno al collo e alle braccia, zufolando sommessamente, monotonamente, intanto che con l’indice e il pollice della mano destra prendeva una serpe per la testa facendola divincolare penzoloni, mentre con la sinistra ne impugnava un’altra pel collo a guisa di spada…”.

A differenza dei Viaggi straordinari, mi sembra che Scurpiddu (‘sto nome dialettale proprio non lo sopporto!) sia un libro che si può avvicinare soprattutto per interesse storico-letterario. Offre molti spunti su cui riflettere, ma è un interesse di tipo specialistico. Come dire: per cultori della materia. Per i Viaggi straordinari sospetto il contrario. Farò la prova. Come detto: userò gli studenti delle mie classi come cavie. Poi vi faccio sapere.

Perché lo scrittore Luigi Capuana mi è più simpatico di Verga

Ho di Giovanni Verga e di Luigi Capuana, per lo più, vecchie nozioni di tipo scolastico che ogni anno rinverdisco sempre un po’ svogliatamente in classe, tirando fuori un paio di brani antologici da sottoporre ai miei studenti, rispolverando i soliti argomenti triti: la poetica del verismo e l’uso del discorso indiretto libero, il rapporto tra lingua scritta e lingua parlata, il ciclo dei vinti, il pessimismo verghiano, il destino immutabile dei deboli ovvero l’ideale dell’ostrica (per la quale è impossibile abbandonare lo scoglio), ecc. Il programma me lo impone. Il volume di Letteratura me li piazza sotto gli occhi intimandomi di parlarne. E io lo faccio con una certa noia.

Che poi non è vero. Mi mette sotto gli occhi solo Verga. Lui infatti occupa saldamente il canone, non si può saltare. Capuana rimane invece laterale, è considerato una specie di fratello di minore importanza, piuttosto misconosciuto dalla scuola, probabilmente anche per certi pregiudizi critici duri a morire e che si sono incancreniti da decenni. Giudizi che si sono incrostati sulle loro opere e su cui ancora non è stato versato abbastanza viakal.

I loro due nomi, ci sto pensando ora, fanno parte della mia stessa biografia lavorativa. In una scuola intitolata a Verga infatti ho insegnato per sei ore settimanali circa sette anni fa, a Capuana è invece intitolata la scuola in cui insegno tutt’ora e in cui sono titolare ormai da molto tempo.

Al di là della scuola però non li ho frequentati molto e l’unico vero aggiornamento che ho fatto dai tempi dell’Università ha poco a che fare con la letteratura, e riguarda piuttosto la fotografia. Diversi anni fa ho infatti trovato su una bancarella un libro sull’attività fotografica di Capuana, Verga e De Roberto, edito da Edikronos e curato da Andrea Nemiz. Poi, nel 2006, ne ho comprato un altro. Ero andato a Trapani, al museo Pepoli, proprio vedere una mostra che esponeva oltre alle fotografie di Capuana e Verga, anche quelle realizzate da Samuel Butler tra il 1892 e il 1894 in Sicilia. E ho acquistato il catalogo. Poi, negli anni successivi, ho continuato a lasciare perdere Verga mentre su Capuana un po’ ho iniziato a documentarmi, scoprendo che è un autore che riserva diverse sorprese.

Tra i due dunque, ormai è chiaro, mi fa più simpatia Capuana. La critica invece osanna Verga, perché ha portato alla migliore espressione quelle idee veriste di cui lo stesso Capuana è stato il primo e migliore teorizzatore (mi par di ricordare così, dai tempi della scuola). Verga, dicono infatti molti critici, ha portato a compimento con la sua opera quelle stesse idee veriste che Capuana avrebbe voluto realizzare, senza riuscirci mai pienamente. Boh, è anche possibile, chissà!

Io di opere di Verga, tra liceo e Università, ne ho lette molte, dalle novelle di Vita dei campi a I Malavoglia a Mastro Don Gesualdo. Era obbligatorio leggere queste tre opere per arrivare al diploma, e poi anche alla laurea. E devo dire che, a leggerle, bisogna riconoscere che c’è effettivamente in quelle opere una coerenza e un’unità di intenti che le rende qualcosa di compatto e risolto, progettualmente definito e chiaro.

Capuana invece non aveva la stessa costanza, la stessa capacità di battere una strada coerente, sempre la stessa, con ostinata progettualità. Per questo mi è simpatico. Capuana si inoltrava in mille percorsi, si lasciava attrarre dagli intreressi più svariati, con entusiasmo e sempre nuova curiosità. E secondo me, se lasciamo perdere gli sviluppi storico-critici legati al verismo, Capuana è un figura molto più interessante di Verga. Ed è un personaggio capace di offrire ancora oggi qualche sorpresa. Verga no. Con lui non credo ci possano essere sorprese.

Ma, anche se non è della fotografia che volevo parlare, continuiamo a parlare di fotografia. Per Verga la fotografia è un passatempo che non ha particolare rilevanza, su cui non c’è particolare investimento personale. Capuana invece ci si intriga, ci perde ore e sonno e fatiche, ci si dedica con animo da sperimentatore, sottopone alla prova personale tutte le novità tecniche di cui viene a conoscenza.

Scrive Andrea Nemiz: “la passione sviscerata di Capuana per la fotografia – in certi periodi rischiava di sconfinare perfino nella mania – lo porta a scrivere di questa attività anche nelle lettere agli amici e, addirittura, a confidar loro formule, o a comunicare le novità riguardanti le macchine e le lastre fotografiche scoperte nei suoi viaggi a Milano o a Firenze”.

Più di una volta, per lettera, Verga lo rimprovera, gli dice che perde tempo in occupazioni diverse dalla letteratura, sprecando quella che è la sua vocazione autentica e il suo talento. Un giorno, di fronte agli entusiasmi per delle nuove tecniche da stampatore appena sperimentate che Capuana gli descrive per lettera, Verga risponde con un’ironia per nulla dissimulata: “Ho visto le tue prove all’acqua forte, e te ne faccio i miei complimenti. Ora dovresti pensare a comprarti un torchio per stampare le prove. Pazienza la spesa, ma almeno segneresti una data nella storia della nostra incisione su zinco, e se non la segnerai in quella della letteratura, pazienza ancora! non vorrà dire che non ne avevi l’ingegno, ma che hai pensato meglio di rivolgerlo a più utili e gloriose imprese”.

Nel 1880, tornato in Sicilia da Firenze, Capuana apre a Mineo (il suo paese d’origine) un atelier fotografico che chiama, con un po’ di prosopopea, “Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Prof. Luigi Capuana”, e c’è in questo nome un atteggiamento che non si sa bene come inquadrare: da innovatore e da ciarlatano? Ci rivela come l’intera figura di Capuana fosse intimamente romanzesca e letteraria.

A Mineo, nel suo laboratorio di fotografia, passa intere giornate. Qui sperimenta la stereoscopia, costruisce artigianalmente una rudimentale macchina fotografica e un ingranditore per la stampa delle lastre negative, mette a punto in camera oscura dei procedimenti attraverso i quali stampa delle strane forme in cui crede di ravvisare l’immagine di spiriti o fantasmi. Alla morte e allo spirtismo dedica numerose prove: dalle foto scattate a una giovane posseduta, a quella in cui ritrae se stesso sdraiato su un divano come se fosse morto (era uno scherzo fatto agli amici, a cui manda la foto, e pare che D’Annunzio non ci sia cascato, Verga invece sì), a quelle in cui ritrae veramente corpi morti: di uccelli e perfino di una bambina riesumata dal sepolcro per volere dei suoi genitori.

Luigi Capuana in posa di finto morto – Autoritratto – 1887
(foto dal web)

Bisogna dire che in quegli anni Capuana non è certo l’unico a far convivere un atteggiamento razionalista e positivista con interessi di occultismo e spiritismo, e a mediare tutto questo con le tecniche fotografiche. Esisteva tutto un filone di ricerche fotografiche che, oltre a dedicarsi a fotografare il visibile, si incaponiva nel tentativo di catturare l’invisibile: fantasmi, spiriti, apparizioni. O che si dedicava a inscenare trucchi, falsificazioni, messiscene giocando con le tecniche dell’ottica e dello sviluppo.

E Capuana, come ciarlatano appassionato di occultismo oltre che come sperimentatore di tecniche fotografiche, non è da meno di altri pseudo-scienziati. I suoi pericolosi fallimenti li racconta lui stesso negli scritti dedicati a questo argomento: Spiritismo? del 1884 (De Roberto gli scriverà ironizzando gli spiriti saranno irritatissmi per quel “?”) e Mondo occulto. Tra tutti gli esperimenti, il più noto è quello che riguarda Beppina Poggi, una ragazza di diciotto anni presso la cui famiglia Capuana stava in pensione a Firenze. Avendo notato in lei doti eccezionali da sonnambula Capuana comincia a sottoporla a prove talmente estenuanti da minarne la salute. Racconta infatti lui stesso: “Non sospettavo neppure che, a forza di condurre quell’organismo all’estremo limite dell’allucinazione provocata, lo mettevo a repentaglio di cadere, forse irrimediabilmente, nella vera pazzia”.

Ma questo lato cialtrone e irresponsabile nasconde una vera e originaria passione, coltivata fin da ragazzo, per il fantastico, ed è ciò che fa positivamente deragliare la produzione narrativa di Capuana dai percorsi, condivisi con Verga e De Roberto, del naturalismo e del verismo (in cui ancora oggi è a torto incasellato dalla critica più pigra) a tutta una serie di aperture e filoni narrativi che Verga non è proprio capace di sfiorare: le fiabe, la narrativa per ragazzi, i racconti del fantastico (alcuni dei quali prefigurano la fantascienza). Sono racconti che, oggi, per certi versi lo rendono forse ben più attuale di Verga.

Emile Zola fotografato da Capuana nel suo studio di via Arcione a Roma- 1894

Insomma, Capuana legge Balzac e Zola e introduce in Italia il naturalismo scrivendo sui quotidiani con cui collabora piccoli saggi e pamphlet (è stato anche giornalista, prima della Nazione di Firenze, poi del Corriere della Sera). Così conduce Verga e De Roberto sulla strada del verismo e del naturalismo (è Capuana infatti il maestro e l’anticipatore). Accosta di persona Zola, di cui diventa amico (pare che gli abbia regalato delle fotografie di donne romane utilizzate per scrivere Roma) e si dedica in prima persona a opere di impianto naturalista. Ma poi, grazie al proliferare dei suoi interessi che spaziano in molte direzioni diverse, arriva ad incorciare e affiancare in diverse prose (per lo più novelle e racconti brevi) lo Stoker di Dracula, le fantasticherie scientifiche di Jules Verne, lo Stevenson dei racconti d’avventura.

Ed è appunto di alcuni tra questi racconti che volevo parlare quando ho iniziato a scrivere. Ma mi son perso. Ne parlerò nei prossimi appunti, se riesco.

[per scrivere questi appunti ho letto e/o consultato:

  • Andrea Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto Fotografi, Palermo, Edikronos, 1982
  • Renato Lo Schiavo, Michele Fundarò, Marco Fragonara, La scrittura dell’occhio. Utopisti e Veristi dalla penna alla lastra, Trapani, Ignazio Grimaldi Editore, 2006
  • Giuseppe Bonaviri, Introduzione a Scurpiddu, Milano, Rizzoli (BUR), 1980
  • Fabrizio Foni, Lo scrittore e/è il medium. Appunti su Capuana spiritista consultabile al seguente link: https://media.agiati.org/page/attachments/agiati-atti-a-2007-art-13-foni.pdf
  • Giovannella Desideri, “Il fantastico” in Letteratura Italiana (diretta da Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)
  • Alberto Abruzzese e Carlo Grassi, “La fotografia” in Letteratura Italiana (diretta da Alberto Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)]