Il lockdown (o isolamento) a cui ormai siamo abituati dal marzo del 2020, tra momentanee liberazioni e ritorni al chiuso, ci ha fatto precipitare in un’esperienza degli spazi inedita per la maggior parte di noi.

Dopo che per anni si era provato a metterle a tacere, enfatizzando gli spazi ibridi, fluidi, le zone di transito, tutto ciò che favorisce un incessante e comodo passaggio, le porte durante quest’anno hanno ripreso a dirci (probabilmente ancora a torto) che al di qua di esse c’è la salvezza protetta degli spazi domestici, fuori dei quali si rischia di brutto.

In controtendenza con ciò che molti architetti e artisti avevano tentato negli ultimi decenni, il lockdwon ha riportato al centro delle nostre vite la funzione dura e solidissima della porta: la sua dimensione potentemente simbolica. E innanzi tutto: il suo ruolo di protezione del domestico e dunque anche il suo essere elemento di separazione rispetto a tutto ciò che è esterno e non famigliare. E che, in quanto tale, va tenuto fuori perché elemento estraneo percepito o descritto come pericoloso, potenzialmente letale.

Comincerò a raccogliere, qui, tra i miei appunti, un po’ di materiali utili a mettere a fuoco la questione, per avviare un ragionamento in vista di un articolo un po’ strutturato ancora da scrivere.

Appunti per un articolo che forse non scriverò

Georges Peres, Specie di spazi, 1989

Se si scrive di spazi, di oggetti e luoghi domestici, di elementi architettonici della casa o della città è utile andare a rispulciare qualche libro di Georges Perec. C’è solo l’imbarazzo della scelta, sono numerosi i libri in cui si potrà recuperare qualcosa di buono.

In Specie di spazi ti imbatti in effetti subito in un breve capitolo dedicato alle porte. E ciò che riconosci è una sorta di idiosincrasia. O forse addirittura una vera e propria critica della porta in quanto elemento che in modo definitivo separa il privato dal pubblico, il domestico dal politico e che spinge a definire tutto ciò che rimane dentro un appartamento come mio. Sembra di sentire il Peppino Impastato de I cento passi, ricordate? La mia casa, la mia famiglia. Qui, Perec dettaglia ancor di più: “il mio letto, la mia moquette, il mio tavolo, la mia macchina da scrivere, i miei libri, i miei numeri spaiati di La Nouvelle Revue Française”, scrive.

In queste due paginette dedicate alle porte dominante è proprio l’opposto della porta e cioé il valore aperto, partecipativo degli spazi continui, intermedi. Ma poi Perec non può che finire con il registrare proprio l’impossibilità e la sconfitta degli spazi fluidi di fronte al potere imperioso della porta. In quella che, abbiamo detto, è una vera e propria critica della porta Perec afferma che la porta “vieta l’osmosi, impone la compartimentazione”, non consente di passare da un luogo all’altro, dal pubblico al privato “lasciandosi scivolare”.

Infine specifica che “ci vuole una parola d’ordine, bisogna oltrepassare la soglia, bisogna farsi riconoscere, bisogna comunicare, come il prigioniero comunica con il mondo esterno”.

Istruzioni per l’uso di un favo o di un alveare

Georges Peres, La vita istruzioni per l’uso, 1978

Non so se avete presente La vita istruzioni per l’uso, quel librone di circa cinquecento pagine in cui Perec indaga la vita di un intero palazzo, appartamento per appartamento, inquilino per inquilino. Alla fine ne disegna pure la mappa. Ebbene, anche in quel libro, che sembrerebbe segnare l’apoteosi dello spazio privato, il luogo da cui ha inizio l’intera narrazione è uno spazio neutro (“un luogo anonimo, freddo, quasi ostile”), che appartiene a tutti e a nessuno, dove “la gente si incontra quasi senza vedersi, in cui la vita dell’edificio si ripercuote, lontana e regolare”. Uno spazio continuo o appunto fluido.

Il libro incomincia insomma dalle scale. E anche qui, in modo prepotente, sembra delinearsi da subito una critica della porta. Scrive Perec: “Di quello che succede dietro le pesanti porte degli appartamenti, spesso se non sempre si avvertono solo quegli echi esplosi, quei brani, quei brandelli, quegli schizzi, quegli abbozzi, quegl’incidenti o accidenti che si svolgono in quelle che si chiamano le parti comuni, i piccoli rumori felpati che la passatoia di lana rossa attutisce, gli embrioni di vita comunitaria che sempre si fermano sul pianerottolo. Gli abitanti di uno stesso edificio vivono a pochi centimetri di distanza, separati da un semplice tramezzo, e condividono gli stessi spazi ripetuti di piano in piano, fanno gli stessi gesti nello stesso tempo, aprire il rubinetto, tirare la catena dello sciacquone, accendere la luce, preparare la tavola, qualche decina di esistenze simultanee che si ripetono da un piano all’altro, da un edificio all’altro, da una via all’altra. Si barricano nei loro millesimi – è così che si chiamano infatti – e vorrebbero tanto che non ne uscisse niente, ma per quanto poco ne lascino uscire, il cane al guinzaglio, il bambino che va a prendere il pane, l’espulso e il congedato, è sempre dalle scale che esce tutto”.

L’immagine che se ne ricava è quella di una conformazione o strutturazione modulare, intercambiabile, che si accresce per giustapposizione, come un favo o un alveare. Ma siccome l’uomo è un animale abituato a raccontarsi come soggetto, e dunque considera lo spazio privato (la mia casa) come fulcro dell’esistente, uno sguardo panoramico, ad angolo giro, come quello scelto da Perec viene percepito come sguardo straniato o alieno, invece che la normalità vera dello stare al mondo.

Il lockdown ha ridato forma a quest’alveare. Quando, durante le prime settimane di isolamento, tutti si affacciavano allo stesso orario per cantare e sentire cantare, quello che avevi davanti era proprio il favo: una struttura modulare riproposta all’infinito, palazzo per palazzo, strada per strada, con alcune varianti di poco conto. Era forse questa percezione, l’uniformità della propria esistenza rispetto a quella degli altri, e dunque un sostanziale azzeramento del soggetto, il vero sentimento angoscioso provato in quei giorni?

Conoscete Le cose?

Georges Peres, Le cose, 1965

Conoscete quel libro? Il primo libro scritto da Georges Perec e che si intitola Le cose? Se non lo conoscete, ve lo consiglio. Intanto, è uno dei pochissimi libri scritti per lo più al condizionale, e questo ai miei occhi lo rende già eccezionale. E poi è un lungo viaggio attraverso la vita di una coppia e le case che abita e gli oggetti che desidera e che affastella. Racconta il tentativo, se ben ricordo per lo più fallito, di un’ascesa sociale, il progredire (cominciando presto a girare a vuoto) dei due protagonisti, che da studenti spiantati iniziano a lavorare, si assicurano un lieve benessere piccoloborghese, possono permettersi qualche vacanza a basso costo, qualche casa un po’ più grande, oggetti un po’ più costosi, sognando sempre una ricchezza che non arriva, molto fantasticata ma mai conquistata. La vita di molti, insomma, nell’epoca dei consumi, oggi come ieri. Facciamo finta che questa coppia abbia vissuto il lockdown. Cosa impossibile, essendo un romanzo pubblicato nel 1965. L’avrebbe vissuto come molte coppie l’hanno vissuto davvero: in un appartamento piccolo e angusto, che ti toglie l’aria.

Questa coppia, che ha fatto della porta un vero e proprio simulacro, lo avrebbe affrontato così: “Su una superficie totale di trentacinque metri quadri, che non avevano mai osato misurare, l’appartamento si componeva di un piccolissimo ingresso, di un minuscolo cucinino, metà del quale era stato adattato a stanza da bagno, di una camera di modeste dimensioni, di una stanza per tutti gli usi – biblioteca, soggiorno o studio, camera per gli ospiti – e di un cantuccio mal definito, una via di mezzo fra bugigattolo e corridoio, nel quale riuscivano a trovar posto un frigorifero di formato ridotto, uno scalda-acqua elettrico, un guardaroba improvvisato, una tavola dove consumavano i pasti e una cassa per la biancheria sporca che serviva anche da sedile. In certi giorni la mancanza di spazio diventava tirannica. Soffocavano. Ma avevano un bel respingere i limiti delle loro due stanze, abbattere pareti, suscitare corridoi, armadi a muro, incorporare nella fantasia gli appartamemnti dei vicini; finivano sempre col ritrovarsi in ciò che era la loro realtà: trentacinque metri quadri”.