L’ultimo film di Cecilia Mangini

“Sono le fotografie che mi ricordano le cose, perché io sto perdendo la memoria” dice Cecilia Mangini in Due scatole dimenticate. Un viaggio in Vietnam, il suo ultimo film, realizzato con Paolo Pisanelli. Mentre parla si aggira come una rabdomante, circospetta, in cerca di qualche piccolo tesoro, tra un ingombro di oggetti disseminati per terra, tutt’attorno a un tavolino basso. Due scatole piene di provini ritrovate dopo almeno cinquant’anni nel fondo di un armadio sono state l’occasione del film. Due scatole piene di fotografie fatte in Vietnam tra il 1964 e il 1965, nel corso di un viaggio lungo tre mesi in compagnia del marito, Lino Del Fra. Erano andati lì per un sopralluogo in vista di un film (mai girato a causa della guerra).

Era il mese di maggio del 2019 e non ricordo più dove avevo letto questo fatto che Cecilia Mangini sarebbe stata a Palermo per una masterclass nella sede siciliana della Scuola Nazionale di Cinema. Il programma diceva che in serata ci sarebbe stata la proiezione di Due scatole scomparse e un incontro con la regista aperti al pubblico. Alla Zisa, proprio qui a due passi. Nemmeno la fatica di prendere la macchina. Ci sono andato proprio per vedere e ascoltare lei. Poi (ma questo conta pochissimo nell’economia dei fatti) alla proiezione ho incontrato anche un mio amico, studioso di cinema, che non vedevo da più di dieci anni e che abita tra Milano e il resto del mondo, al quale ho detto: “ma tu sei a Palermo e non mi chiami!”. Ha nicchiato. Poi lui ha detto: “ridammi il tuo numero, domani ti telefono e se puoi ci vediamo”. Mai più sentito.

Scuola Nazionale di Cinema- sede siciliana ai Cantieri Culturali della Zisa (Palermo)

Carotaggi

“La memoria è come un deposito geologico. Si fa un carotaggio e si arriva all’olocene, al pleistocene, sempre più giù. Anche con la memoria è così”, aveva detto Cecilia Mangini a Palermo commentando il suo film, e non mi sfugge l’autoironia di questa ultranovantenne.

Non la ricordavo affatto questa frase. Ho recuperato questo mio personale pezzettino di memoria scomparsa grazie a un video, fatto in occasione di quell’evento, pubblicato sul sito di Repubblica. Sfrutto questa frase salvata dalla dimeticanza per fare il mio personale carotaggio su quello che mi fa venire in mente il nome e la figura di Cecilia Mangini. Oltre al mio amico studioso di cinema che non mi ha più chiamato:

  • Essere donne, bellissimo film del 1965 sulla condizione della donna tra lavoro e famiglia, visto su youtube;
  • All’armi siam fascisti!, film del 1962, visto su una piattaforma che ora non ricordo qual è, ma a cui i miei due familiari erano abbonati.
  • la Storia Fotografica della Società Italiana, una collana di libri pubblicata alla fine degli anni ’90 da Editori Riuniti.
  • Una mostra delle fotografie di Cecilia Mangini scattate alle Eolie, visitata proprio a Lipari, al Castello, in una sala di fronte al Museo Archeologico, tre, quattro, forse cinque anni fa.

Mi piacevano da matti quei libri della Storia fotografica della società italiana. Ma credo che piacessero solo a me e a pochi altri. Li ho comprati tutti. I primi a prezzo intero in libreria. Gli altri a metà prezzo tra gli usati. Poi sono spariti. Poi è sparita anche la casa editrice, gli Editori Riuniti, che però dopo qualche tempo è riapparsa. Ora esiste di nuovo. Io pure ci sono, magari fatto a pezzi, tutto un po’ smembrato, una gamba lì, un pezzo di cervello dall’altra parte: non ci sono proprio tutto tutto. Cecilia Mangini invece pochi giorni fa, esattamente il 21 Gennaio, se n’è andata. Aveva 93 anni e a Palermo, ancora un anno e mezzo fa, era lucida e arzilla nonostante si muovesse con l’aiuto di una stampella. I suoi 93 anni se li portava benissimo.

Andrea Nemiz, La ricostruzione. 1945-1953, Editori Riuniti

Lipari

Lì, in quella specie di storia d’Italia per immagini, nel volume intitolato La ricostruzione. 1945-1953 curato da Andrea Nemiz, c’erano alcuni scatti del primo reportage realizzato da Cecilia Mangini nel 1950: un lavoro su Lipari, le immagini dei lavoratori delle cave di pomice. In una foto si vedevano delle donne lavorare. La didascalia diceva: “Le lavoratrici delle cave di pomice: un sacco in testa, un ombrello per proteggersi dal sole cocente, la bottiglia dell’acqua sempre accanto”. In un’altra foto si vedevano degli uomini lavorare, in mutande, dei fazzoletti in testa con dei nodini fatti ai quattro angoli, per ripararsi dal sole. La didascalia diceva: “I sacchi di pomice sono immagazzinati dagli uomini a forza di braccia; una piccola mascherina e un fazzoletto annodato in testa sono un’illusione per un’impossibile protezione dalla silicosi”.

Sono immagini inevitabilmente dominate dal bianco. Distese di bianco intervallate da poche forme scure a formare improvvisi, nettissmi contrasti. Una fotografia tesa a testimoniare la fatica degli uomini, le sacche di miseria e le contraddizioni sociali della Repubblica italiana appena nata. Ma in cui dalla miseria affiora a tratti la bellezza.

Silicosi

La silicosi è una malattia polmonare causata dall’inalazione di minuscole particelle di diossido di silicone. Una tipica malattia del lavoro. La maggior parte delle volte portava alla morte. Anzi: è la prima e più antica malattia polmonare da lavoro conosciuta in Italia, quella riscontrata da più tempo. La contraeva chi lavorava in miniera o nelle cave, gli spaccapietre, chi faceva esplodere rocce e sabbia. E tra questi, appunto, i cavatori di pomice di Lipari. Del cui lavoro, una decina di anni dopo le fotografie di Cecilia Mangini, nel 1961, il giornalista Francesco Rosso avrebbe scritto in questo modo: ” L’intero versante settentrionale dell’isola di Lipari è una immensa cava di pomice, parte a cielo aperto e parte solcata da centinaia di anguste gallerie. […] Nei mesi estivi, quando il sole saetta implacabile, lavorare lassù è pauroso. La roccia libera un calore intollerabile, la polvere cocente soffoca, la sete tortura e i meno forti cedono. Un capogiro, uno sforzo maldestro per muovere sulla liscia parete le gambe impiombate di stanchezza, e la voragine si spalanca sotto gli ignari, che – storditi dall’insolazione – hanno già perduto conoscenza ancor prima di iniziare il volo di trecento metri verso l’abisso d’ombra”.

Al fondo

Al fondo del carotaggio: due ricordi, i più vecchi. Da bambino passavo le estati in un paese a circa venti chilometri da Messina e a non più di dieci chilometri da Milazzo. Il mare era pieno di pesci, e già questa è una notizia. L’entroterra era pieno di orti (anche questa è una notizia). Di fronte alla spiaggia: le isole. In preciso ordine, da ovest a est: Vulcano, Lipari Salina, Panarea, Stromboli. C’è tutta una scienza piuttosto complessa, e che genera infinite polemiche tra la gente del posto, legata alla vista delle isole dalla costa tra Milazzo e Messina. Meglio sorvolare.

La geografia dei luoghi non troppo distanti da lì ti mandava notizie per mare, come messaggi in bottiglia. Le cose trovate in spiaggia raccontavano storie. Pezzi di mattone rosso levigati parlavano di cantieri di case in costruzione vicino alla spiaggia, magari abusive. La pece che si attaccava ai piedi se camminavi distratto raccontava della vicina raffineria di Milazzo o magari di qualche nave, partita da lì, che aveva lavato le stive svuotando il risciacquo in pieno mare. Uno strumento perfetto per pulire la pece dai piedi se ti capitava di beccartela in spiaggia era la pomice, proveniente dritta dritta dalle spiagge di Lipari, lì davanti, di fronte al tuo sguardo.

E poi un giorno, dopo avere ascoltato come un aborigeno dell’Australia queste storie narrate da oggetti depositati nei luoghi, a Lipari i miei genitori mi ci hanno portato. E ora, non so se è un inganno, ma ricordo con una certa precisione una discesa di polvere o sabbia bianchissima da cui ci siamo lasciati andare, rotolando giù giù per una cinquantina di metri, fino a cadere direttamente in mare. Una discesa che durava una vita, tanto era lungo (ma soffice) quella specie di burrone. Però francamente non so. Non so se è valido questo ricordo o se è successo qualcosa di simile a quello che raccontava Cecilia Mangini qui a Palermo: “Pensa e ripensa sono venuti fuori tanti ricordi. Io se li ho aggiustati a modo mio non lo so”.

[sulla recente scomparsa di Cecilia Mangini si può leggere questo articolo di Cristina Piccino, uscito sul Manifesto: https://ilmanifesto.it/cecilia-mangini-il-mondo-dentro-al-fotogramma/

Il documentario di Cecilia Mangini Essere donne del 1965, si può vedere qui: https://www.youtube.com/watch?v=mk25pEfwcX4

Sulle cave di pomice di Lipari ho trovato in rete questo approfondimento, che mi sembra buono e da cui ho tratto il brano di Francesco Rosso: https://narraredistoria.com/2020/05/03/storia-la-pomice-di-lipari-storia-di-unindustria-forse-finita/ ]