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Storia breve di Bazille

sotto_lineature – leggo sottolineando e guardo attentamente le figure

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L’immagine: Auguste Renoir, Frédéric Bazille, 1867 – huile sur toile – 105 x 73,5 cm. (Musée Fabre, Montpellier.)

Il libro: Théodore Duret, Gli impressionisti e il loro mercante, Editrice Bietti, Milano, 1946

La scorsa settimana, da buon turista in visita a Parigi, non ho potuto fare a meno di visitare il Museo d’Orsay. È lì che mi sono imbattutto in un dipinto che ritraeva Renoir da giovane, eseguito da Frédéric Bazille.

Il ritratto è questo

Frédéric Bazille, Ritratto di Auguste Renoir, 1867 – olio su tela (Musée d’Orsay, Paris)

Fa il paio con quello che ho messo in copertina, che è invece stato realizzato da Renoir e ritrae proprio Frédéric Bazille al lavoro su una delle sue tele più note, L’airone.

Di Renoir avevo in mente un racconto che fa il mercante d’arte Ambroise Vollard. Lo descrive ormai grande, molto malato, quasi del tutto impossibilitato a muovere gli arti, mentre si fa legare alle mani i pennelli per potere continuare a dipingere.

Qui invece è giovane e sfrontato. Il dipinto è del 1867. Renoir ha 26 anni, come il suo amico Bazille che lo ritrae e che, a sua volta, Renoir ritrae proprio in quell’anno. La posa e l’esecuzione sono incredibilmente libere, del tutto anticonvenzionali, perfino in confronto con la ritrattistica ben poco paludata dei nuovi pittori francesi del periodo. È l’opera di un giovane pittore di grande talento, quale Bazille effettivamente era.

Gli impressionisti, in questi anni, non sono ancora gli impressionisti. Sono già un gruppo molto coeso e solidale di artisti, che elabora idee comuni sull’arte, in contrasto con l’accademia. Ma non hanno mai esposto in pubblico come gruppo. Faticano da matti a affermarsi e sono sempre squattrinati perché non riescono a vendere i loro quadri. Si riuniscono spesso al Cafè Guerbois, sotto l’ala tutelare di Édouard Manet, di una decina d’anni più grande di loro. Oltre a Claude Monet, Sisley, Cézanne, Pissarro, gli stessi Renoir e Bazille, frequentano quel caffè e quelle riunioni anche diversi scrittori e intellettuali, come Émile Zola e il fotografo Félix Nadar.

Dovranno passare ancora sette-otto anni, bisognerà superare la guerra franco-prussiana, la Comune e l’assedio di Parigi prima che gli impressionisti diventino a tutti gli effetti gli impressionisti, cioè un movimento che si presenta sulla scena parigina compatto. Invece di trarne un vantaggio economico, la scelta procurerà loro irrisione, sbeffeggiamenti, ulteriore marginalità. Li taglierà fuori ancora di più dal mercato dell’arte. Chi si sporcherà le mani con gli impressionisti, come ad esempio Zola, si brucerà, venendo perfino licenziato dal giornale su cui ha tessuto le lodi del movimento. Chi proverà a commerciare le loro opere, come Paul Durand-Ruel, il loro principale mercante, precipiterà a un passo dal fallimento.

È dunque il 15 aprile del 1874 quando, presso lo studio di Félix Nadar in Boulevard des Capucines n.35, viene inaugurata a Parigi la prima esposizione collettiva del gruppo, considerata l’atto di nascita ufficiale dell’impressionismo. Ma Frédéric Bazille non c’è più. Lui, che di quel movimento era stato uno dei membri principali e fondativi, di fatto non l’ha mai visto davvero nascere, l’impressionismo.

35 boulevard des Capucines, Paris 2nd arr. dove c’era l’Atelier del fotografo Nadar

Vita breve di Bazille

Trovo un bel profilo di Bazille su un vecchio libro che apparteneva a mio padre, scritto da un testimone di quegli anni, che è stato uno dei primi e principali storici dell’impressionismo francese e che frequentava gli incontri del Cafè Guerbois:Théodore Duret.

Dice Duret: «Poco si è scritto per ricordare la luminosa figura di questo pittore, mancato troppo giovane alla promesse che la morte gli impedì di mantenere».

Nato a Montpellier nel 1841 da una famiglia benestante, destinato per dovere familiare a una carriera da medico, si trasferì a Parigi proprio per studiare medicina. Ma non ne aveva né la passione né il talento. Aveva piuttosto da sempre coltivato la passione per l’arte. Era il 1959 e, mentre portava avanti alla meno peggio e senza alcun entusiasmo gli esami universitari, cercò uno studio in cui continuare a impratichirsi con la pittura, e andò a finire nell’atelier di Gleyre. Dopo qualche anno di vita piuttosto solitaria e malinconica, senza frequentazioni significative né presso la facoltà di medicina né nel giro degli artisti, qualcosa di decisivo succede quando capita nello stesso corso di Claude Monet, frequentato anche da Renoir e Sisley. Stringe subito amicizia con Monet e di questa nuova amicizia parla con entusiasmo nella frequente corrispondenza che continua a intrattenere con la famiglia.

Intanto Monet, dopo l’ennesimo violento scontro con il maestro Gleyre, decide di abbandonare lo studio. Bazille, Sisley e Renoir lo seguono a ruota.

Monet si trasferisce a Honfleur per dipingere all’aria aperta, a contatto con la natura, secondo quella che è la nascente, nuova pratica degli impressionisti. Invita a più riprese Bazille a raggiunerlo. Alla fine Bazille molla tutto e lo raggiunge. Quando rientra a Parigi per sostenere gli esami universitari, colleziona una serie di bocciature. È la volta buona. Anche il padre, dopo aspre discussioni, finalmente se ne convince. Bazille abbandona gli sudi.
È il 1865 e finalmente Bazille può vivere come vuole. Con Monet prendono in affitto un appartemento dietro la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, al n. 6 di rue de Furstenberg, proprio un piano sopra a quello che fino al 1863 era stato lo studio di Delacroix, e dove oggi si trova il museo a lui intitolato. Lavorano fianco a fianco tutto il giorno. Escono quasi sempre assieme. È in quei giorni che conoscono Édouard Manet e, qualche tempo dopo, anche Gustave Courbet.

Bazille ritrae lo studio di rue de Furstenberg, dove intanto Monet lavora alla sua Colazione sull’erba, in questo dipinto

Frédéric Bazille, Atelier de la rue Furstenberg, Huile sur toile, 80 × 65 cm, (Musée Fabre, Montpellier)

Scrive Duret di Bazille: «Si giudicava sempre con molta severità – benché Pissarro dicesse che era il più dotato di tutti – e non esitava a rifare da principio un quadro che non lo soddisfaceva».

Rispetto a Monet e Renoir lavorava più in studio, impostava il dipinto a matita prima di lavorare con i colori, strutturava e definiva più nettamente le figure.

È il 1867, l’anno dello scambio di ritratti con Renoir. Quello di Bazille realizzato da Renoir viene dipinto durante un soggiorno sulle rive della Senna in compagnia di altri impressionisti. Viene regalato a Manet.

Scrive Duret: «Nella piccola comunità di amici la miseria aumenta. I colori costano caro, le tele altrettanto. C’è poi l’affitto da pagare, c’è da provvedere al cibo quotidiano. Bazille è il più ricco della comitiva e appena può aiuta tutti. All’epoca in cui Monet non trovava acquirenti per le sue tele, gli acquistò per 2.500 franchi Dame in giardino».

Bazille intanto realizza alcuni dei suoi principali lavori, che Duret considera veri e propri capolavori, tra cui Riunioni di famiglia.

In seguito prende in affitto un nuovo appartamento, in rue de Visconti, non lontano da rue de Furstenberg. Qui dá ospitalità prima a Monet, poi allo stesso Renoir, che erano rimasti senza casa, impossibilitati a permettersi un affitto.

Nel 1869, a 27 anni, dipinge quello che Duret considera il suo quadro più bello: Veduta del villaggio.

Arriva il 1870 e la Francia precipita nella guerra contro la Prussia. Gli impressionisti si disperdono. Chi si rifugia a Londra, chi in Provenza. Nell’incomprensione e tra le critiche di tutti i suoi amici, Bazille decide di arruolarsi subito come volontario, nel corpo degli zuavi, uno dei più pericolosi.

Racconta Duret: «Il 25 novembre cadde, durante l’assedio di Beaume la Rolande. I suoi compagni lo trasportarono fuori della mischia e lo stesero su un prato accanto al limpido gorgogliare di un ruscello, intuendo che la fine era prossima e che sarebbe mancato loro il tempo di trasportarlo fino all’ambulanza. In piena lucidità di mente il ferito parlò della sua famiglia con affettuoso rimpianto, distribuì tra i camerati il denaro che aveva, e spirò dopo appena due ore, senza nemmeno entrare in agonia».

E conclude: «L’arte non conosce generazioni spontanee. Dire che Frédéric Bazille non si riallacciasse a nessun artista precedente sarebbe un’inesattezza, dire che la sua arte fu una mistione delle opere di Manet e di Monet dimostrerebbe una totale ignoranza delle sue opere».

James Abbott McNeill Whistler, Ritratto di Theodore Duret, 1883 (Metropolitan Museum of Art, New York)

Per visitare la pagina del Musée Fabre di Montpellier dedicata a Bazille puoi entrare qui: https://www.museefabre.fr/bazille

Qui invece la pagina del Musee D’Orsay dedicata al Renoir di Bazille: https://www.musee-orsay.fr/it/opere/pierre-auguste-renoir-63

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Perché lo scrittore Luigi Capuana mi è più simpatico di Verga

Ho di Giovanni Verga e di Luigi Capuana, per lo più, vecchie nozioni di tipo scolastico che ogni anno rinverdisco sempre un po’ svogliatamente in classe, tirando fuori un paio di brani antologici da sottoporre ai miei studenti, rispolverando i soliti argomenti triti: la poetica del verismo e l’uso del discorso indiretto libero, il rapporto tra lingua scritta e lingua parlata, il ciclo dei vinti, il pessimismo verghiano, il destino immutabile dei deboli ovvero l’ideale dell’ostrica (per la quale è impossibile abbandonare lo scoglio), ecc. Il programma me lo impone. Il volume di Letteratura me li piazza sotto gli occhi intimandomi di parlarne. E io lo faccio con una certa noia.

Che poi non è vero. Mi mette sotto gli occhi solo Verga. Lui infatti occupa saldamente il canone, non si può saltare. Capuana rimane invece laterale, è considerato una specie di fratello di minore importanza, piuttosto misconosciuto dalla scuola, probabilmente anche per certi pregiudizi critici duri a morire e che si sono incancreniti da decenni. Giudizi che si sono incrostati sulle loro opere e su cui ancora non è stato versato abbastanza viakal.

I loro due nomi, ci sto pensando ora, fanno parte della mia stessa biografia lavorativa. In una scuola intitolata a Verga infatti ho insegnato per sei ore settimanali circa sette anni fa, a Capuana è invece intitolata la scuola in cui insegno tutt’ora e in cui sono titolare ormai da molto tempo.

Al di là della scuola però non li ho frequentati molto e l’unico vero aggiornamento che ho fatto dai tempi dell’Università ha poco a che fare con la letteratura, e riguarda piuttosto la fotografia. Diversi anni fa ho infatti trovato su una bancarella un libro sull’attività fotografica di Capuana, Verga e De Roberto, edito da Edikronos e curato da Andrea Nemiz. Poi, nel 2006, ne ho comprato un altro. Ero andato a Trapani, al museo Pepoli, proprio vedere una mostra che esponeva oltre alle fotografie di Capuana e Verga, anche quelle realizzate da Samuel Butler tra il 1892 e il 1894 in Sicilia. E ho acquistato il catalogo. Poi, negli anni successivi, ho continuato a lasciare perdere Verga mentre su Capuana un po’ ho iniziato a documentarmi, scoprendo che è un autore che riserva diverse sorprese.

Tra i due dunque, ormai è chiaro, mi fa più simpatia Capuana. La critica invece osanna Verga, perché ha portato alla migliore espressione quelle idee veriste di cui lo stesso Capuana è stato il primo e migliore teorizzatore (mi par di ricordare così, dai tempi della scuola). Verga, dicono infatti molti critici, ha portato a compimento con la sua opera quelle stesse idee veriste che Capuana avrebbe voluto realizzare, senza riuscirci mai pienamente. Boh, è anche possibile, chissà!

Io di opere di Verga, tra liceo e Università, ne ho lette molte, dalle novelle di Vita dei campi a I Malavoglia a Mastro Don Gesualdo. Era obbligatorio leggere queste tre opere per arrivare al diploma, e poi anche alla laurea. E devo dire che, a leggerle, bisogna riconoscere che c’è effettivamente in quelle opere una coerenza e un’unità di intenti che le rende qualcosa di compatto e risolto, progettualmente definito e chiaro.

Capuana invece non aveva la stessa costanza, la stessa capacità di battere una strada coerente, sempre la stessa, con ostinata progettualità. Per questo mi è simpatico. Capuana si inoltrava in mille percorsi, si lasciava attrarre dagli intreressi più svariati, con entusiasmo e sempre nuova curiosità. E secondo me, se lasciamo perdere gli sviluppi storico-critici legati al verismo, Capuana è un figura molto più interessante di Verga. Ed è un personaggio capace di offrire ancora oggi qualche sorpresa. Verga no. Con lui non credo ci possano essere sorprese.

Ma, anche se non è della fotografia che volevo parlare, continuiamo a parlare di fotografia. Per Verga la fotografia è un passatempo che non ha particolare rilevanza, su cui non c’è particolare investimento personale. Capuana invece ci si intriga, ci perde ore e sonno e fatiche, ci si dedica con animo da sperimentatore, sottopone alla prova personale tutte le novità tecniche di cui viene a conoscenza.

Scrive Andrea Nemiz: “la passione sviscerata di Capuana per la fotografia – in certi periodi rischiava di sconfinare perfino nella mania – lo porta a scrivere di questa attività anche nelle lettere agli amici e, addirittura, a confidar loro formule, o a comunicare le novità riguardanti le macchine e le lastre fotografiche scoperte nei suoi viaggi a Milano o a Firenze”.

Più di una volta, per lettera, Verga lo rimprovera, gli dice che perde tempo in occupazioni diverse dalla letteratura, sprecando quella che è la sua vocazione autentica e il suo talento. Un giorno, di fronte agli entusiasmi per delle nuove tecniche da stampatore appena sperimentate che Capuana gli descrive per lettera, Verga risponde con un’ironia per nulla dissimulata: “Ho visto le tue prove all’acqua forte, e te ne faccio i miei complimenti. Ora dovresti pensare a comprarti un torchio per stampare le prove. Pazienza la spesa, ma almeno segneresti una data nella storia della nostra incisione su zinco, e se non la segnerai in quella della letteratura, pazienza ancora! non vorrà dire che non ne avevi l’ingegno, ma che hai pensato meglio di rivolgerlo a più utili e gloriose imprese”.

Nel 1880, tornato in Sicilia da Firenze, Capuana apre a Mineo (il suo paese d’origine) un atelier fotografico che chiama, con un po’ di prosopopea, “Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Prof. Luigi Capuana”, e c’è in questo nome un atteggiamento che non si sa bene come inquadrare: da innovatore e da ciarlatano? Ci rivela come l’intera figura di Capuana fosse intimamente romanzesca e letteraria.

A Mineo, nel suo laboratorio di fotografia, passa intere giornate. Qui sperimenta la stereoscopia, costruisce artigianalmente una rudimentale macchina fotografica e un ingranditore per la stampa delle lastre negative, mette a punto in camera oscura dei procedimenti attraverso i quali stampa delle strane forme in cui crede di ravvisare l’immagine di spiriti o fantasmi. Alla morte e allo spirtismo dedica numerose prove: dalle foto scattate a una giovane posseduta, a quella in cui ritrae se stesso sdraiato su un divano come se fosse morto (era uno scherzo fatto agli amici, a cui manda la foto, e pare che D’Annunzio non ci sia cascato, Verga invece sì), a quelle in cui ritrae veramente corpi morti: di uccelli e perfino di una bambina riesumata dal sepolcro per volere dei suoi genitori.

Luigi Capuana in posa di finto morto – Autoritratto – 1887
(foto dal web)

Bisogna dire che in quegli anni Capuana non è certo l’unico a far convivere un atteggiamento razionalista e positivista con interessi di occultismo e spiritismo, e a mediare tutto questo con le tecniche fotografiche. Esisteva tutto un filone di ricerche fotografiche che, oltre a dedicarsi a fotografare il visibile, si incaponiva nel tentativo di catturare l’invisibile: fantasmi, spiriti, apparizioni. O che si dedicava a inscenare trucchi, falsificazioni, messiscene giocando con le tecniche dell’ottica e dello sviluppo.

E Capuana, come ciarlatano appassionato di occultismo oltre che come sperimentatore di tecniche fotografiche, non è da meno di altri pseudo-scienziati. I suoi pericolosi fallimenti li racconta lui stesso negli scritti dedicati a questo argomento: Spiritismo? del 1884 (De Roberto gli scriverà ironizzando gli spiriti saranno irritatissmi per quel “?”) e Mondo occulto. Tra tutti gli esperimenti, il più noto è quello che riguarda Beppina Poggi, una ragazza di diciotto anni presso la cui famiglia Capuana stava in pensione a Firenze. Avendo notato in lei doti eccezionali da sonnambula Capuana comincia a sottoporla a prove talmente estenuanti da minarne la salute. Racconta infatti lui stesso: “Non sospettavo neppure che, a forza di condurre quell’organismo all’estremo limite dell’allucinazione provocata, lo mettevo a repentaglio di cadere, forse irrimediabilmente, nella vera pazzia”.

Ma questo lato cialtrone e irresponsabile nasconde una vera e originaria passione, coltivata fin da ragazzo, per il fantastico, ed è ciò che fa positivamente deragliare la produzione narrativa di Capuana dai percorsi, condivisi con Verga e De Roberto, del naturalismo e del verismo (in cui ancora oggi è a torto incasellato dalla critica più pigra) a tutta una serie di aperture e filoni narrativi che Verga non è proprio capace di sfiorare: le fiabe, la narrativa per ragazzi, i racconti del fantastico (alcuni dei quali prefigurano la fantascienza). Sono racconti che, oggi, per certi versi lo rendono forse ben più attuale di Verga.

Emile Zola fotografato da Capuana nel suo studio di via Arcione a Roma- 1894

Insomma, Capuana legge Balzac e Zola e introduce in Italia il naturalismo scrivendo sui quotidiani con cui collabora piccoli saggi e pamphlet (è stato anche giornalista, prima della Nazione di Firenze, poi del Corriere della Sera). Così conduce Verga e De Roberto sulla strada del verismo e del naturalismo (è Capuana infatti il maestro e l’anticipatore). Accosta di persona Zola, di cui diventa amico (pare che gli abbia regalato delle fotografie di donne romane utilizzate per scrivere Roma) e si dedica in prima persona a opere di impianto naturalista. Ma poi, grazie al proliferare dei suoi interessi che spaziano in molte direzioni diverse, arriva ad incorciare e affiancare in diverse prose (per lo più novelle e racconti brevi) lo Stoker di Dracula, le fantasticherie scientifiche di Jules Verne, lo Stevenson dei racconti d’avventura.

Ed è appunto di alcuni tra questi racconti che volevo parlare quando ho iniziato a scrivere. Ma mi son perso. Ne parlerò nei prossimi appunti, se riesco.

[per scrivere questi appunti ho letto e/o consultato:

  • Andrea Nemiz, Capuana, Verga, De Roberto Fotografi, Palermo, Edikronos, 1982
  • Renato Lo Schiavo, Michele Fundarò, Marco Fragonara, La scrittura dell’occhio. Utopisti e Veristi dalla penna alla lastra, Trapani, Ignazio Grimaldi Editore, 2006
  • Giuseppe Bonaviri, Introduzione a Scurpiddu, Milano, Rizzoli (BUR), 1980
  • Fabrizio Foni, Lo scrittore e/è il medium. Appunti su Capuana spiritista consultabile al seguente link: https://media.agiati.org/page/attachments/agiati-atti-a-2007-art-13-foni.pdf
  • Giovannella Desideri, “Il fantastico” in Letteratura Italiana (diretta da Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)
  • Alberto Abruzzese e Carlo Grassi, “La fotografia” in Letteratura Italiana (diretta da Alberto Asor Rosa). L’Età Contemporanea. Letteratura di massa (Torino, Einaudi, 2007)]