La puoi trovare addossata al ciglio di una strada, tra cicche e cartacce e fumi di macchine che vanno e vengono. O se ne sta tranquilla in qualche campo di periferia, nel cuore di un parco cittadino o in uno di quei numerosi spazi indecisi che si trovano nel cuore della città vecchia.

Nonostante sia randagia e incolta, certi giorni è proprio bella: ha un portamento elegante, sembra voler mostrare a tutti il suo fascino esotico. Se ne vanta quasi. In pieno maggio non la puoi non notare: ha un’energia esplosiva e, se sosta al bordo di una strada, arriva a riempire di sé la carreggiata.

La incontri dovunque. Circola, gira, si sposta rapida, viaggia per la città. Per un intero mese, ricordo, l’anno scorso, me la sono ritrovata negli angoli più impensabili di Palermo, la città in cui vivo. Andavo a correre nel parco della Favorita. Finita la zona del bosco, prendendo il largo vialone che scende giù verso Mondello, in quell’ampia valle da cui inizia tutto il declivio che conduce ai piedi di Monte Pellegrino c’erano distese e distese di questa vagabonda, con le sue piume leggere dai riflessi tra un viola molto tenue e il rosa.

Parco della Favorita, Palermo

Qualche giorno dopo ero in macchina. Stavo andando a riempire qualche bidone d’acqua in un posto di montagna che si chiama Giacalone. Me la sono ritrovata ai bordi della strada che circonda la città di Monreale. Bivaccava, addossata al guard-rail o appoggiata ad un muretto.

Monreale (PA)

La settimana dopo avevo appuntamento in città con un mio amico. Dovevamo incontrarci in un bar di fronte a un cinema che si chiama Tiffany. Posteggio nei pressi di una piccola rotonda spartitraffico, scendo dalla macchina, faccio un giro per controllare che la macchina sia messa bene. E chi mi trovo davanti? Proprio lei. Si era installata anche lì, in alti ciuffi, tra il cemento e la pietra.

Viale Piemonte, Palermo

Passa qualche giorno, vado di nuovo a correre, cambiando percorso. E la vedo di nuovo. Stava al di là di un cancello, nel cuore di uno dei parchi archeologici della città, lungo le brevi scarpate e gli antichi muri del Castello a mare.

Parco archeologico del Castello a mare, Palermo

Bell’abissina

Il suo nome è Pennisetum. Pennisetum Setaceum, ad essere precisi. Ed è, forse, la più bella erbaccia di Palermo.

Il suo arrivo in città si inscrive nella storia dell’Italia coloniale. Come sia andata lo racconta Stefano Mancuso ne L’incredibile viaggio delle piante, un bel libro che riesce a far diventare le vicende di migrazione delle piante storie appassionanti da leggersi come romanzi d’avventura.

Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Editori Laterza, 2018

Proveniente da un paese da poco colonizzato, l’Etiopia, il Pennisetum setaceum inizia a colonizzare la Sicilia a partire dal 1938:

Il Pennisetum setaceum arriva in Sicilia nel 1938, grazie all’interesse del professor Bruno, preside della facolltà di agraria, il quale procuratosi un campione di semi li sparge all’interno del giardino coloniale annesso all’orto botanico di Palermo, e inizia a studiare le caratteristiche di crescita e produttive della pianta, in vista di un suo possibile uso come foraggio per gli animali. […] Purtroppo, la specie, nonostante si adatti magnificamente al nuovo ambiente, ha una bassa capacità nutritiva. Inoltre gli animali non sembrano gradirla. […] Si decide di eliminarla dal giardino coloniale per lasciare posto a nuove sperimentazioni. Ed è qui che la sua avvenenza interviene, salvandola. Notata, infatti, la bellezza della fioritura, i tecnici dell’orto botanico decidono di mantenerla in coltivazione e di valutarne le potenzialità come pianta ornamentale.

Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Editori Laterza 2018 (pagg. 46-47)

La pianta scappa dal giardino, probabilmente grazie alla complicità del vento. Ha infatti semi leggerissimi e spumosi che si propagano facilmente nell’aria. Comincia a crescere nelle aiuole e nelle aree abbandonate nei dintroni dell’orto botanico e da lì inizia il viaggio. Mancuso afferma che esistono delle vere e proprie mappature della sua diffusione negli ultimi decenni, da cui si vede come la conquista della Sicilia sia avvenuta attraverso le reti stradali, e dunque grazie ai veicoli.

Le vagabonde

Le vagabonde – così le chiama Gilles Clément- sono piante che con grande facilità si mettono in viaggio: sconfinano, colonizzano spazi, oltrepassano le barriere create dagli uomini. Non le fermi alla dogana, non puoi ispezionare il loro passaporto, si prendono gioco dei confini tra gli stati, attraversano nazioni e continenti eludendo ogni possibile controllo.

Come facciano, per quali vettori, è storia risaputa. Ma questa storia nessuno la racconta meglio di Gilles Clément:

Le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento.

Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polveri fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili.

Il caso organizza i dettagli, per la diffusione delle specie ricorre a qualsiasi vettore. Non c’è nulla che non sia adatto al trasporto: dalle correnti marine alla suola delle scarpe. Ma la gran parte del viaggio spetta agli animali. La natura prende in prestito gli uccelli consumatori di bacche, le formiche giardiniere, le docili pecore, sovversive, il cui vello racchiude campi e campi di sementi. E poi l’uomo. Animale tormentato in continuo movimento, libero scambiatore di diversità.

Gilles Clement, Elogio delle vagabonde, DeriveApprodi, 2010 (pag. 20)

Gilles Clément ne fa quasi una questione politica. Le vagabonde scompaginano i paesaggi. In tempi di revanscismo identitario, in cui la figura dello straniero viene descritta come quella di un nemico, anche le vagabonde subiscono la loro parte di discriminazione:

Per cominciare, ce la prendiamo con gli esseri che con quel luogo non hanno niente a che fare. Soprattutto se lì sono felici. Anzitutto eliminare, poi si vedrà. Regolare, registrare, fissare le norme di un paesaggio, le quote di esistenza. Definire nemici, pestilenze o minacce gli esseri che osano valicare questi limiti. Istruire un processo, diefinire un protocollo d’azione: dichiarare guerra.

Gilles Clément, Elogio delle vagabonde, DeriveApprodi 2010 (pag. 22)

Se Gilles Clément “vede nella molteplicità degli incontri e nelle diversità degli esseri altrettante ricchezze apportate al territorio”, con un termine chiaramente spregiativo queste piante vengono invece chiamate dai più invasive o, peggio, infestanti. In quanto aliene o straniere, sono considerate portatrici di minacce. Entrano in competizione con le specie autoctone, riducendone lo spazio vitale. Effettivamente alcune di loro, introdotte per sbaglio o per troppa superficialità in un determinato ecosistema, pare abbiano avuto la capacità di mettere in ginocchio economie. Gli effetti di piante fortemente invasive come l’Eichhornia crassipes, il giacinto d’acqua, vengono descritti così, ad esempio, sul portale dell’Invasive Species Specialist Group:

E. crassipes è una delle peggiori piante infestanti del mondo (Holm et al. 1977, in Room and Fernando 1992). La gente l’ha diffusa nella maggior parte delle regioni tropicali e subtropicali del mondo, dove forma spessi tappeti che ricoprono le risaie, intasano i canali d’irrigazione, impediscono la navigazione, bloccano la pesca, spazzano via edifici durante le inondazioni e favoriscono la riproduzione di zanzare portatrici di malattie (Carter 1950, Chow et al. 1955, Williams 1956, Kotalawala 1976, in Room and Fernando 1992).

http://issg.org/database/species/impact_info.asp?si=70&fr=1&sts=&lang=EN

Anche questa vagabonda, come il Pennisetum, è bellissima. Forse ancor più bella. Tanto bella quanto maligna. Per questo l’hanno voluta coltivare gli orti botanici di mezzo mondo, dai quali è poi scappata, propagandosi e invadendo velocemente interi specchi d’acqua.

Riesce a raddoppiare la propria biomassa in pochissimo tempo: dai sei ai diciotto giorni. Ne sanno qualcosa sul Lago Vittoria, in Africa, dove ha invaso quasi per intero il versante ugandese intasando canali, finendo nelle chiuse di un impianto idroelettrico e causando l’incremento delle malattie diffuse da vettori.

Una femme fatale, insomma. Una vampiressa. Te ne innamori. Ma poi mentre la baci, e lei si lascia baciare, ti morde il collo, ti succhia il sangue.

Eichhornia crassipes (giacinto d’acqua)