Tag: bicicletta

Il veicolo che odio di più

Parlando della differenza tra denotazione e connotazione, qualche giorno prima che finisse l’anno scolastico dicevo ai miei alunni di 1ª E che ci sono delle parti del discorso, come gli aggettivi qualificativi e gli avverbi di modo, che hanno naturalmente una loro dimensione più connotativa. E lo stesso vale per gli alterati  – diminutivi, vezzeggiativi, accrescitivi, ecc. E certi verbi, dicevo loro, hanno un significato più direttamente connotativo rispetto ad altri, che sono più neutri e distaccati. Poi abbiamo letto alcune descrizioni oggettive e alcune descrizioni soggettive. Tra le descrizioni oggettive, il libro di Antologia proponeva una descrizione tecnica della bicicletta e delle parti di cui è composta, tratta dalla Treccani. Mi è venuto in mente a un certo punto di fare insieme alla classe un gioco: trasformare in soggettiva la descrizione oggettiva della bicicletta, usando appunto aggettivi qualificativi, avverbi di modo, alterati, ecc. Ecco qui sotto quello che è venuto fuori. 

La bicicletta

Testo tratto e adattato dalla Treccani

(DESCRIZIONE OGGETTIVA)

Veicolo a due ruote gommate, poste una dietro l’altra, fatto di norma per una persona che, a cavalcioni su un sellino, aziona con la forza muscolare delle gambe la ruota posteriore mentre con le mani impugna il manubrio. La bicicletta si compone di varie parti. Il telaio porta la sella, la ruota posteriore rigidamente fissata e quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo, la scatola del movimento con la moltiplica e i pedali.

La bicicletta, il veicolo che odio di più

(DESCRIZIONE SOGGETTIVA)

Veicolo con due ruotacce gommate, poste banalmente l’una dietro l’altra, fatto per appena una sola persona che, a cavalcioni su un sellino scomodissimo, sfrutta ignobilmente la forza muscolare delle gambe per azionare la ruota posteriore mentre impugna il manubrio con le mani diventate tutte sudate e appiccicose. La bicicletta si compone di troppe inutili parti. Il telaio porta una sellaccia scomodissima, la ruota posteriore (un po’ troppo sottile e rigidamente e pericolosamente fissata) e, peggio ancora, quella anteriore con l’interposizione della forcella e dello sterzo. Infine questi incoscienti ci hanno montato su una scatola del movimento con la moltiplica e degli scivolosissimi pedali. Insomma, soldi buttati!

[Questo breve articolo si p leggere anche sul blog della classe, qui: https://unsorrisoallalettura.altervista.org/il-veicolo-che-odio-di-piu/

Un altro articolo simile tra i miei taccuini lo trovi qui: https://www.mariovalentini.net/ricordo-di-gianni-celati-attraverso-i-racconti-dei-miei-studenti/

Qui invece un articolo sulle esperienze di Mark Twain con la bicicletta: https://www.mariovalentini.net/come-cadere-dalla-bicicletta-senza-romperla-su-un-racconto-di-mark-twain/ ]

Come cadere dalla bicicletta senza romperla

La prima volta che Mark Twain riuscì a fare qualche metro in bicicletta a guardarlo c’era un ragazzo “che, appollaiato sul pilastro di un cancello, sgranocchiava un pezzo di zucchero d’acero”.

Era circa il 1893, così dice Livio Crescenzi, che ha curato Addomesticare la biciletta (Mattioli 1885, 2019), volumetto che raccoglie una serie di racconti e cronache scritti da Mark Twain sul finire dell’800, tra cui appunto quello che dà il nome alla raccolta.

Più che una bicicletta era un biciclo, di quelli con la ruota davanti altissima e quella di dietro molto più piccola. Le bici infatti non avevano ancora la catena e l’unico modo per dare un po’ di velocità a quei mezzi un po’ rudimentali era costruire la ruota davanti molto grande. Non esistevano nemmeno camere d’aria e copertoni. Bella comodità! Immagino le botte al sedere e i lividi a ogni scaffa o sasso. Però erano mezzi solidi, non si rompevano mai. Lo dice lo stesso Mark Twain, che si stupisce di come dopo decine e decine di cadute la bicicletta fosse intatta, senza nemmeno un graffio. Lo stesso invece non accadeva al guidatore.

Per riuscire a fare andare quell’affare, dopo i primi disastrosi tentativi, ci vollero otto giorni di lezioni di un’ora e mezza l’una con un istruttore professionista. Ed eccolo lì, finalmente in strada, Mark Twain, sotto gli occhi irridenti del ragazzo del pilastro, che lo osserva molto interessato: “La faccenda della bicicletta lo interessò subito molto, e non fu avaro di commenti. La prima volta che sbagliai e mi ritrovai per terra, disse che se fosse stato al mio posto si sarebbe imbottito di cuscini, ecco quello che avrebbe fatto lui. Quando caddi a terra la seconda volta, mi consigliò di imparare prima ad andare sul triciclo. La terza volta che precipitai al suolo, disse che non credeva che sarei riuscito a rimanere nemmeno su un tram a cavalli. La volta successiva però rimasi in equilibrio, e fu così che, seppure maldestramente e in modo incerto, mi riuscì di pedalare barcollando e sbandando da una parte e dall’altra, occupando praticamente tutta la sede stradale. Quel mio modo d’incedere lento e goffo riempì il ragazzo di disprezzo, tanto che alla fine se ne uscì dicendo: Poveraccio, un altro po’ e si spacca tutto!”.

Se c’è un mezzo che ha saputo far scatenare la comicità dei maggiori scrittori umoristici di quell’epoca (appena qualche anno dopo Jerome K. Jerome avrebbe dedicato a un viaggio in bicicletta un intero romanzo), sono proprio le due ruote. Non in Italia però, dove la bicicletta è sempre stata presa in considerazione con una certa serietà: per i futuristi era il simbolo di quella velocità che annunciava una nuova era; i cronisti del Giro d’Italia hanno costruito intorno alla bicicletta saghe eroiche, raccontando gesta, compiute anche oltr’alpe, che somigliavano a disperate battaglie o a estenuanti campagne di conquista.

Umberto Boccioni, 1913, Dinamismo di un ciclista, olio su tela, 70 x 95 cm, Collezione Gianni Mattioli, presso Peggy Guggenheim Collection, Venezia

Più in là, a metà del secolo, l’epopea sì è arricchita con i racconti di partigiani e partigiane che in pianura passavano indenni ai check-point dei nazisti nascondendo nei telai delle biciclette volantini, documenti, dispacci. Nell’immediato dopoguerra la bicicletta è anche stata raccontata al cinema come mezzo prezioso, d’importanza vitale, capace di assicurare il sostentamento di intere famiglie. Grazie a un trionfo ciclistico, quello di Bartali in Francia, si tramanda (esagerando forse un bel po’) che fu evitata una rivoluzione di popolo dopo l’attentato a Togliatti. Altrove no, non ricordo un’epica simile. Altrove la bicicletta è stata piuttosto occasione di disavventure, peripezie, gag. E se proprio dobbiamo dirla tutta, l’avvento della bicicletta, almeno negli Stati Uniti, coincide proprio con la decadenza dell’epica e forse con la sua fine.

La bicicletta si addomestica, si doma, come fosse una bestia imbizzarrita. Mark Twain a inizio racconto dice di non avere comprato una bicicletta adulta, docile e compassata, ma un puledro ombroso e scontroso. E poi usa termini come saltare in groppa, cavalcare, ammansire. Se la bicicletta è un cavallo meccanico, è destinata a sostituire quello vero. La conquista del west era avvenuta attraversando sulla groppa di quel fido compagno immense terre selvagge. La ferrovia aveva già ampiamente contribuito ad addomesticare la prateria, sostituendosi alle diligenze e alle carovane. Ora giunge la bicicletta a continuare l’opera, minacciando di soppiantare l’eroe dell’espansione americana. Ma è già nato chi, veramente, fino in fondo e da incontrastato dominatore porterà a compimento il lavoro: è femmina anche lei, ha quattro ruote, un volante, un motore a scoppio nel ventre.

.