[si può leggere come invece la pensa Perec sulle porte in questo precedente articolo: https://www.mariovalentini.net/la-rivincita-della-porta-ovvero-il-lockdown-visto-da-georges-perec/ ]
Che cos’è una porta? Questa domanda, che sembra prevedere una risposta banale e scontata, nasconde in realtà un gran numero di insidie.
La porta è quanto di più instabile esista. Entità doppia, non di rado mette radici in quella particolare figura retorica che viene chiamata ossimoro.
La porta infatti incardina in una sola parola due contrari, degli opposti che convivono senza riuscire a trovare pace o conciliazione: la porta separa e unisce, è entrata ma anche uscita, si apre ma si può chiudere. O viceversa (frase che non fa lo stesso effetto e che non dice la stessa cosa): la chiudi ma si può sempre aprire.
Spalanca corpo e sguardo verso l’aperto ma può anche seppellirti dentro un carcere o in una specie tomba. Durante il lockdown, ad esempio, le porte ci hanno preservato dalla diffusione della malattia, e dunque ci hanno protetti. Ma alla lunga ci hanno chiusi in una galera domestica. Le abbiamo percepite come salvezza e condanna, con rabbia e rassegnazione.
La porta è confine e legame. Mette in comunicazione due spazi e tutto quello che riguarda e abita quegli spazi. Ma nel momento stesso in cui li mette in comunicazione finisce per disegnare (o designare?) un perimetro: una ben netta separazione.
Una porta la puoi spalancare, con gesto arioso e liberatorio, abbiamo detto. Ma può anche essere sprangata. E qui il doppio si raddoppia, perché puoi venire sprangato dentro o puoi essere tu a sprangarti dentro. O puoi essere tu esterno, e allora la porta sprangata ti lascia fuori. Non ti contiene più. Ti esclude, ti mette ai margini. Anzi, fuori dal margine. Chi è dentro (se dentro c’è ancora qualcuno) ti ha abbandonato lì fuori alle intemperie.
Ma stiamo ancora girando attorno alla domanda senza aver dato una vera risposta. Dunque: che cos’è una porta?
Tecnicamente, se cercate in qualsiasi vocabolario (io ho consultato il Gabrielli, il Devoto Oli e quello on-line della Treccani), per porta si intende un’apertura praticata in una parete, recinto o cinta muraria. Un vano che viene (tenuto) aperto per consentire il passaggio.
La parte mobile
Ma è proprio un vizio della porta quello di non essere mai semplice e univoca, perché sappiamo tutti che la porta non è solo il vano o l’apertura. Si chiama porta anche il serramento applicato al vano per consentirne la chiusura e quindi l’eventuale riapertura. Un altro ossimoro, insomma: la porta ha una sua parte mobile e una immobile.
La parte mobile è il serramento: si può aprire, chiudere, anche solo socchiudere. Si può aprire facilmente abbassando con molta rilassatezza la maniglia. Ma la maggior parte delle porte ha un chiavistello e dunque si può chiudere a chiave. Se è chiusa a chiave e la chiave non si trova o è andata perduta, se la serratura si è rotta, la porta dovrà essere allora scardinata, sfondata, abbattuta. Bisognerà esercitare una notevole forza, addirittura violenza, o viceversa molta furbizia e arte: si dovrà fare effrazione.
IL varco è fragile
Il varco o apertura raramente è sprovvisto di una sua chiusura. Chi apre il varco, insomma, pensa bene per prima cosa di dotarlo di tutto il necessario per poterlo richiudere in qualsiasi momento. Non si fida. Quando ha tirato su il muro, comprensibilmente ha evitato di murarsi dentro, di chiudersi in una trappola. Ma ora, con il varco spalancato, o forse sarebbe meglio dire non protetto, non dorme sonni tranquilli.
La porta insomma è anche un punto di estrema fragilità. Nelle notti insonni o in cui ti addormenti a fatica, se ti sarai dimenticato di chiudere la porta a chiave (o non avrai voluto farlo), il pensiero di quella porta poco protetta ti si pianterà in testa portandoti ancora pensieri e pensieri.
Non vorresti barricarti. Hai una certa fiducia nel mondo lì fuori. Ma se davvero desideri prendere sonno una volta per tutte, ti alzerai dal letto, cercherai al buio le chiavi di casa e alla fine darai almeno un paio di giri al chiavistello. Quel gesto semplice sarà forse d’aiuto a lasciare fuori di casa le inquietudini, ti guiderà (si spera) una buona volta nel sonno.
Nelle città antiche, che a differenza di quelle moderne erano dotate di cinte murarie e dunque di porte, le porte erano il punto debole, l’elemento da proteggere. In tempo di pace, tutto a posto: la porta sta spalancata, consente un rapporto con la campagna. La città potrà dunque aprirsi all’esterno e farsi mercato. Ma in tempo di guerra sono guai. Servono accorgimenti, serve correre ai ripari. La porta va rinforzata perché, essendo un varco chiuso solo temporaneamente e in modo precario, è il punto da cui la città può essere definitivamente perduta.
L’ingegno umano così si dà fare, cerca rimedi e li trova. Sull’enciclopedia Treccani leggo, alla voce dedicata alle cosiddette porte urbiche, cioè delle città:
Nel sistema difensivo costituito dalla cinta muraria, la p. rappresentava un’interruzione delle cortine e quindi un punto debole che occorreva rafforzare con dispositivi fortificati particolari. Si trovano così, nelle p. urbiche delle città di epoche remotissime e di civilizzazioni diversissime, sistemi abbastanza simili di rafforzamento: torri affiancate o sovrapposte alla p., percorsi obbligati a portata di tiro dei difensori, ponti mobili e fissi, difese esterne formate secondo le epoche da doppie cinte o rivellini antistanti.
L’apertura o vano
Ma ancora non abbiamo detto tutto di com’è fatta una porta. Serramento a parte, il vano o apertura è anch’esso un insieme complesso. Nulla è lasciato al caso.
C’è una soglia: la parte bassa, orizzontale, calpestabile. Ci sono gli stipiti: le due parti laterali, che vanno su verticali, dalla soglia verso l’alto. Sopra generalmente sono chiusi, sormontati da un altro elemento orizzontale: l’architrave. Ma a delimitare il varco può esserci anche un arco.
Lo spessore del muro si chiama imbotte. Per incardinare una porta, nel senso del serramento, è necessario creare un infisso: servirà quanto meno un telaio.
Se tutto questo manca, più che diventare una porta quell’apertura rimarrà quasi a livello di breccia: sarà una semplice fenditura, uno squarcio. Qualcosa di estremamente precario, sintomo di un luogo abbandonato, in rovina o non finito.
Designerà l’inabitabile, il residuo.
Spazio inospitale, concesso alle erbacce, esposto alle intemperie, destinato al saccheggio.