La prima volta che Mark Twain riuscì a fare qualche metro in bicicletta a guardarlo c’era un ragazzo “che, appollaiato sul pilastro di un cancello, sgranocchiava un pezzo di zucchero d’acero”.

Era circa il 1893, così dice Livio Crescenzi, che ha curato Addomesticare la biciletta (Mattioli 1885, 2019), volumetto che raccoglie una serie di racconti e cronache scritti da Mark Twain sul finire dell’800, tra cui appunto quello che dà il nome alla raccolta.

Più che una bicicletta era un biciclo, di quelli con la ruota davanti altissima e quella di dietro molto più piccola. Le bici infatti non avevano ancora la catena e l’unico modo per dare un po’ di velocità a quei mezzi un po’ rudimentali era costruire la ruota davanti molto grande. Non esistevano nemmeno camere d’aria e copertoni. Bella comodità! Immagino le botte al sedere e i lividi a ogni scaffa o sasso. Però erano mezzi solidi, non si rompevano mai. Lo dice lo stesso Mark Twain, che si stupisce di come dopo decine e decine di cadute la bicicletta fosse intatta, senza nemmeno un graffio. Lo stesso invece non accadeva al guidatore.

Per riuscire a fare andare quell’affare, dopo i primi disastrosi tentativi, ci vollero otto giorni di lezioni di un’ora e mezza l’una con un istruttore professionista. Ed eccolo lì, finalmente in strada, Mark Twain, sotto gli occhi irridenti del ragazzo del pilastro, che lo osserva molto interessato: “La faccenda della bicicletta lo interessò subito molto, e non fu avaro di commenti. La prima volta che sbagliai e mi ritrovai per terra, disse che se fosse stato al mio posto si sarebbe imbottito di cuscini, ecco quello che avrebbe fatto lui. Quando caddi a terra la seconda volta, mi consigliò di imparare prima ad andare sul triciclo. La terza volta che precipitai al suolo, disse che non credeva che sarei riuscito a rimanere nemmeno su un tram a cavalli. La volta successiva però rimasi in equilibrio, e fu così che, seppure maldestramente e in modo incerto, mi riuscì di pedalare barcollando e sbandando da una parte e dall’altra, occupando praticamente tutta la sede stradale. Quel mio modo d’incedere lento e goffo riempì il ragazzo di disprezzo, tanto che alla fine se ne uscì dicendo: Poveraccio, un altro po’ e si spacca tutto!”.

Se c’è un mezzo che ha saputo far scatenare la comicità dei maggiori scrittori umoristici di quell’epoca (appena qualche anno dopo Jerome K. Jerome avrebbe dedicato a un viaggio in bicicletta un intero romanzo), sono proprio le due ruote. Non in Italia però, dove la bicicletta è sempre stata presa in considerazione con una certa serietà: per i futuristi era il simbolo di quella velocità che annunciava una nuova era; i cronisti del Giro d’Italia hanno costruito intorno alla bicicletta saghe eroiche, raccontando gesta, compiute anche oltr’alpe, che somigliavano a disperate battaglie o a estenuanti campagne di conquista.

Umberto Boccioni, 1913, Dinamismo di un ciclista, olio su tela, 70 x 95 cm, Collezione Gianni Mattioli, presso Peggy Guggenheim Collection, Venezia

Più in là, a metà del secolo, l’epopea sì è arricchita con i racconti di partigiani e partigiane che in pianura passavano indenni ai check-point dei nazisti nascondendo nei telai delle biciclette volantini, documenti, dispacci. Nell’immediato dopoguerra la bicicletta è anche stata raccontata al cinema come mezzo prezioso, d’importanza vitale, capace di assicurare il sostentamento di intere famiglie. Grazie a un trionfo ciclistico, quello di Bartali in Francia, si tramanda (esagerando forse un bel po’) che fu evitata una rivoluzione di popolo dopo l’attentato a Togliatti. Altrove no, non ricordo un’epica simile. Altrove la bicicletta è stata piuttosto occasione di disavventure, peripezie, gag. E se proprio dobbiamo dirla tutta, l’avvento della bicicletta, almeno negli Stati Uniti, coincide proprio con la decadenza dell’epica e forse con la sua fine.

La bicicletta si addomestica, si doma, come fosse una bestia imbizzarrita. Mark Twain a inizio racconto dice di non avere comprato una bicicletta adulta, docile e compassata, ma un puledro ombroso e scontroso. E poi usa termini come saltare in groppa, cavalcare, ammansire. Se la bicicletta è un cavallo meccanico, è destinata a sostituire quello vero. La conquista del west era avvenuta attraversando sulla groppa di quel fido compagno immense terre selvagge. La ferrovia aveva già ampiamente contribuito ad addomesticare la prateria, sostituendosi alle diligenze e alle carovane. Ora giunge la bicicletta a continuare l’opera, minacciando di soppiantare l’eroe dell’espansione americana. Ma è già nato chi, veramente, fino in fondo e da incontrastato dominatore porterà a compimento il lavoro: è femmina anche lei, ha quattro ruote, un volante, un motore a scoppio nel ventre.

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