Categoria: sotto_lineature

Storia breve di Bazille

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L’immagine: Auguste Renoir, Frédéric Bazille, 1867 – huile sur toile – 105 x 73,5 cm. (Musée Fabre, Montpellier.)

Il libro: Théodore Duret, Gli impressionisti e il loro mercante, Editrice Bietti, Milano, 1946

La scorsa settimana, da buon turista in visita a Parigi, non ho potuto fare a meno di visitare il Museo d’Orsay. È lì che mi sono imbattutto in un dipinto che ritraeva Renoir da giovane, eseguito da Frédéric Bazille.

Il ritratto è questo

Frédéric Bazille, Ritratto di Auguste Renoir, 1867 – olio su tela (Musée d’Orsay, Paris)

Fa il paio con quello che ho messo in copertina, che è invece stato realizzato da Renoir e ritrae proprio Frédéric Bazille al lavoro su una delle sue tele più note, L’airone.

Di Renoir avevo in mente un racconto che fa il mercante d’arte Ambroise Vollard. Lo descrive ormai grande, molto malato, quasi del tutto impossibilitato a muovere gli arti, mentre si fa legare alle mani i pennelli per potere continuare a dipingere.

Qui invece è giovane e sfrontato. Il dipinto è del 1867. Renoir ha 26 anni, come il suo amico Bazille che lo ritrae e che, a sua volta, Renoir ritrae proprio in quell’anno. La posa e l’esecuzione sono incredibilmente libere, del tutto anticonvenzionali, perfino in confronto con la ritrattistica ben poco paludata dei nuovi pittori francesi del periodo. È l’opera di un giovane pittore di grande talento, quale Bazille effettivamente era.

Gli impressionisti, in questi anni, non sono ancora gli impressionisti. Sono già un gruppo molto coeso e solidale di artisti, che elabora idee comuni sull’arte, in contrasto con l’accademia. Ma non hanno mai esposto in pubblico come gruppo. Faticano da matti a affermarsi e sono sempre squattrinati perché non riescono a vendere i loro quadri. Si riuniscono spesso al Cafè Guerbois, sotto l’ala tutelare di Édouard Manet, di una decina d’anni più grande di loro. Oltre a Claude Monet, Sisley, Cézanne, Pissarro, gli stessi Renoir e Bazille, frequentano quel caffè e quelle riunioni anche diversi scrittori e intellettuali, come Émile Zola e il fotografo Félix Nadar.

Dovranno passare ancora sette-otto anni, bisognerà superare la guerra franco-prussiana, la Comune e l’assedio di Parigi prima che gli impressionisti diventino a tutti gli effetti gli impressionisti, cioè un movimento che si presenta sulla scena parigina compatto. Invece di trarne un vantaggio economico, la scelta procurerà loro irrisione, sbeffeggiamenti, ulteriore marginalità. Li taglierà fuori ancora di più dal mercato dell’arte. Chi si sporcherà le mani con gli impressionisti, come ad esempio Zola, si brucerà, venendo perfino licenziato dal giornale su cui ha tessuto le lodi del movimento. Chi proverà a commerciare le loro opere, come Paul Durand-Ruel, il loro principale mercante, precipiterà a un passo dal fallimento.

È dunque il 15 aprile del 1874 quando, presso lo studio di Félix Nadar in Boulevard des Capucines n.35, viene inaugurata a Parigi la prima esposizione collettiva del gruppo, considerata l’atto di nascita ufficiale dell’impressionismo. Ma Frédéric Bazille non c’è più. Lui, che di quel movimento era stato uno dei membri principali e fondativi, di fatto non l’ha mai visto davvero nascere, l’impressionismo.

35 boulevard des Capucines, Paris 2nd arr. dove c’era l’Atelier del fotografo Nadar

Vita breve di Bazille

Trovo un bel profilo di Bazille su un vecchio libro che apparteneva a mio padre, scritto da un testimone di quegli anni, che è stato uno dei primi e principali storici dell’impressionismo francese e che frequentava gli incontri del Cafè Guerbois:Théodore Duret.

Dice Duret: «Poco si è scritto per ricordare la luminosa figura di questo pittore, mancato troppo giovane alla promesse che la morte gli impedì di mantenere».

Nato a Montpellier nel 1841 da una famiglia benestante, destinato per dovere familiare a una carriera da medico, si trasferì a Parigi proprio per studiare medicina. Ma non ne aveva né la passione né il talento. Aveva piuttosto da sempre coltivato la passione per l’arte. Era il 1959 e, mentre portava avanti alla meno peggio e senza alcun entusiasmo gli esami universitari, cercò uno studio in cui continuare a impratichirsi con la pittura, e andò a finire nell’atelier di Gleyre. Dopo qualche anno di vita piuttosto solitaria e malinconica, senza frequentazioni significative né presso la facoltà di medicina né nel giro degli artisti, qualcosa di decisivo succede quando capita nello stesso corso di Claude Monet, frequentato anche da Renoir e Sisley. Stringe subito amicizia con Monet e di questa nuova amicizia parla con entusiasmo nella frequente corrispondenza che continua a intrattenere con la famiglia.

Intanto Monet, dopo l’ennesimo violento scontro con il maestro Gleyre, decide di abbandonare lo studio. Bazille, Sisley e Renoir lo seguono a ruota.

Monet si trasferisce a Honfleur per dipingere all’aria aperta, a contatto con la natura, secondo quella che è la nascente, nuova pratica degli impressionisti. Invita a più riprese Bazille a raggiunerlo. Alla fine Bazille molla tutto e lo raggiunge. Quando rientra a Parigi per sostenere gli esami universitari, colleziona una serie di bocciature. È la volta buona. Anche il padre, dopo aspre discussioni, finalmente se ne convince. Bazille abbandona gli sudi.
È il 1865 e finalmente Bazille può vivere come vuole. Con Monet prendono in affitto un appartemento dietro la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, al n. 6 di rue de Furstenberg, proprio un piano sopra a quello che fino al 1863 era stato lo studio di Delacroix, e dove oggi si trova il museo a lui intitolato. Lavorano fianco a fianco tutto il giorno. Escono quasi sempre assieme. È in quei giorni che conoscono Édouard Manet e, qualche tempo dopo, anche Gustave Courbet.

Bazille ritrae lo studio di rue de Furstenberg, dove intanto Monet lavora alla sua Colazione sull’erba, in questo dipinto

Frédéric Bazille, Atelier de la rue Furstenberg, Huile sur toile, 80 × 65 cm, (Musée Fabre, Montpellier)

Scrive Duret di Bazille: «Si giudicava sempre con molta severità – benché Pissarro dicesse che era il più dotato di tutti – e non esitava a rifare da principio un quadro che non lo soddisfaceva».

Rispetto a Monet e Renoir lavorava più in studio, impostava il dipinto a matita prima di lavorare con i colori, strutturava e definiva più nettamente le figure.

È il 1867, l’anno dello scambio di ritratti con Renoir. Quello di Bazille realizzato da Renoir viene dipinto durante un soggiorno sulle rive della Senna in compagnia di altri impressionisti. Viene regalato a Manet.

Scrive Duret: «Nella piccola comunità di amici la miseria aumenta. I colori costano caro, le tele altrettanto. C’è poi l’affitto da pagare, c’è da provvedere al cibo quotidiano. Bazille è il più ricco della comitiva e appena può aiuta tutti. All’epoca in cui Monet non trovava acquirenti per le sue tele, gli acquistò per 2.500 franchi Dame in giardino».

Bazille intanto realizza alcuni dei suoi principali lavori, che Duret considera veri e propri capolavori, tra cui Riunioni di famiglia.

In seguito prende in affitto un nuovo appartamento, in rue de Visconti, non lontano da rue de Furstenberg. Qui dá ospitalità prima a Monet, poi allo stesso Renoir, che erano rimasti senza casa, impossibilitati a permettersi un affitto.

Nel 1869, a 27 anni, dipinge quello che Duret considera il suo quadro più bello: Veduta del villaggio.

Arriva il 1870 e la Francia precipita nella guerra contro la Prussia. Gli impressionisti si disperdono. Chi si rifugia a Londra, chi in Provenza. Nell’incomprensione e tra le critiche di tutti i suoi amici, Bazille decide di arruolarsi subito come volontario, nel corpo degli zuavi, uno dei più pericolosi.

Racconta Duret: «Il 25 novembre cadde, durante l’assedio di Beaume la Rolande. I suoi compagni lo trasportarono fuori della mischia e lo stesero su un prato accanto al limpido gorgogliare di un ruscello, intuendo che la fine era prossima e che sarebbe mancato loro il tempo di trasportarlo fino all’ambulanza. In piena lucidità di mente il ferito parlò della sua famiglia con affettuoso rimpianto, distribuì tra i camerati il denaro che aveva, e spirò dopo appena due ore, senza nemmeno entrare in agonia».

E conclude: «L’arte non conosce generazioni spontanee. Dire che Frédéric Bazille non si riallacciasse a nessun artista precedente sarebbe un’inesattezza, dire che la sua arte fu una mistione delle opere di Manet e di Monet dimostrerebbe una totale ignoranza delle sue opere».

James Abbott McNeill Whistler, Ritratto di Theodore Duret, 1883 (Metropolitan Museum of Art, New York)

Per visitare la pagina del Musée Fabre di Montpellier dedicata a Bazille puoi entrare qui: https://www.museefabre.fr/bazille

Qui invece la pagina del Musee D’Orsay dedicata al Renoir di Bazille: https://www.musee-orsay.fr/it/opere/pierre-auguste-renoir-63

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Miles Davis dei fotografi

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Il disco: Miles Davis, Tutu, Warner Bros 1986

Il libro: Arrigo Polillo, Jazz, nuova edizione aggiornata a cura di Franco Fayez, Mondadori, 1997

Le immagini: fotografie di Irving Penn per l’LP Tutu

Nel suo Jazz, grande classico uscito nel 1975 e poi, in edizione accresciuta, nel 1982, Arrigo Polillo riserva alla musica degli anni ’70 di Miles Davis, quelli della cosiddetta svolta elettrica, qualcosa di più che una netta stroncatura.

Emette giudizi quasi sprezzanti, come in questo passaggio: “dopo il 1970 il trombettista ha seguito inesorabilmente la logica del mercato a cui ha deciso di adeguarsi”. E poi: “si è allontanato sempre più dal jazz per fare del rock grossolanamente effettistico, monotono e informe, che gli ha attirato giudizi molto duri da parte della stragrande maggioranza dei critici, dei musicisti e dei cultori del jazz”. E ancora: “ha continuato a produrre musica quasi sempre più scadente, riducendo al minimo le proprie prestazioni di strumentista ormai arrochito e insignificante”. E per finire: “riesce difficile accettare il suicidio artistico di Miles Davis e rinunciare del tutto alla speranza di una sua resurrezione”.

Quando, nel 1997, Franco Fayenz ha curato un’ulteriore riedizione di Jazz, ha anche scritto un aggiornamento di quasi cento pagine nel quale si è trovato a contraddire con il tatto dovuto i netti giudizi negativi di Polillo sul Miles Davis del periodo successivo a Bitches Brew, ultimo album al quale il critico riconosceva una qualche dignità. E forse è a completare il risarcimento che per la copertina dell’edizione del 1997 è stata scelta una bellissima foto di Miles Davis scattata da Aaron Rapoport proprio nel 1970.

Fayenz scrive: “In verità, dal 1982 fino a due mesi prima della morte (Santa Monica, California, 28 settembre 1991) i suoi concerti e i suoi dischi furono un crescendo di episodi affascinanti e indimenticabili, di grande musica e di alcuni capolavori”. E continua: “E poi c’era il suono di quella tromba, diventato ormai siderale, cosmico, capace di suscitare emozioni indelebili con una sola nota e di valorizzare le pause in un modo mai udito prima”.

Tutu, un LP del 1986, è uno dei primi dischi di musica jazz che ho comprato. Dovevo avere 17-18 anni. Si tratta del primo album pubblicato da Miles Davis per la Warner Bros. Al di là del valore musicale, ha una copertina che è un capolavoro. Riproduce alcune meravigliose foto scattate a Miles Davis dal grande fotografo americano Irving Penn, su incarico della Warner Bros, proprio per l’uscita dell’album. Gli scatti vennero fatti nello studio di Irving Penn, a New York, il 1 luglio 1986.

Irving Penn ha raccontato quella giornata di lavoro molti anni dopo, nel 2004, in un’intervista a Vogue, che si può leggere per intero qui:
https://www.vogue.com/article/vd-remembering-irving-penn-the-stranger-behind-the-camera

Miles Davis era arrivato nel suo studio accompagnato da un parrucchiere, con il suo solito atteggiamento scostante. “Quando entrò provai a parargli, ma mi ignorò del tutto”, racconta Irving Penn. Dopo avere sistemato la sua acconciatura Miles Davis si mise davanti alla macchina fotografica. “Scommetto che vuoi che mi tolga la maglietta”, disse. “Sì”. “E scommetto che vuoi che mi tolga anche tutte queste catene d’oro”. “Sì”.

Lo sessione di lavoro durò circa un’ora. Alla fine Irving Penn lo ringraziò. Miles Davis non disse niente, gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla bocca. Irving Penn rimase lì senza sapere che dire. Poi si strinsero la mano e Miles Davis se ne andò.

Irving Penn non aveva mai ascoltato niente di Miles Davis. Solo dopo quegli scatti cominciò a seguire la sua musica. Ma racconta nell’intervista che non ebbe più modo di incontrarlo per dirgli che la trovava, in qualche modo, affine alla migliore arte visiva ed estremamente interessante e profonda.

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Tavole contro la guerra

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Negli anni della Repubblica di Weimar George Grosz ha collezionato un discreto numero di processi. Sul banco degli imputati era quasi sempre in compagnia di Wieland Herzfelde, editore della casa editrice Malik-Verlag che pubblicava i suoi lavori.

Wieland Herzfelde era il fratello di John Heartfield, artista celebre per i suoi fotomontaggi, che con Grosz fu tra i principali esponenti del movimento dadaista berlinese. I tre nei primi anni venti militarono nel partito comunista tedesco e diedero vita a un gran numero di riviste, ognuna delle quali durava appena qualche numero per poi venire presto sequestrata e messa al bando dalle autorità. Molte delle copertine di quelle riviste erano illustrazioni di Grosz. Dallo spiccato piglio antimilitarista, le illustrazioni denunciavano la feroce repressione anticomunista e la violenza di un blocco di potere che, nonostante la sconfitta del primo conflitto, aveva ancora una gran voglia di guerra. Denunciavano la convergenza di interessi tra generali, grande industria, governo socialdemocratico e Chiesa.

Grosz subisce il primo processo nel 1920, per le nove litografie della cartella Gott mitt uns. L’accusa è quella di oltraggio alle forze armate.

Il secondo processo gli viene intentato per oscenità nel 1923, dopo la pubblicazione con la Malik-Verlag delle ottantaquattro litografie, con sedici riproduzioni a colori, dell’Ecce Homo.

Il terzo processo risale al 1928. L’accusa è quella di balsfemia. La cartella incriminata si intitolava Hintengrund.

Le tavole confluite nella cartella della Malik-Verlag facevano parte dei lavori realizzati da Grosz per le scene dello spettacolo Il buon soldato Schwejk, messo in scena a Berlino da Erwin Piscator nel gennaio 1928 e tratto dal capolavoro di Hašek.

Il dibattimento, tra condanne e ricorsi, durò circa tre anni e ebbe vasta eco. Inizialmente era incentrato su tre tavole. Ma presto si concentrò solo su una di queste, la numero 10, raffigurante un Cristo con la maschera antigas. La tavola riporduceva in calce la scritta: «Sta’ zitto e continua a servire!».

Il processo si chiuse il 5 dicembre 1931, quando la Corte suprema del Reich ordinò il sequestro e la distruzione della piastra per la riproducibilità, appunto, della tavola n.10. Pare che nel frattempo Herzfelde, in attesa che la sentenza definitiva venisse pronunciata, avesse aperto le casse sigillate contenenti le piastre e avesse fatto fare numerose riproduzioni delle tavole sottoposte a processo.

Alla fine dunque sul banco degli imputati era rimasto solo il Cristo con la maschera antigas. L’intero dibattimento si era incentrato sulla frase scritta ai piedi della croce. A chi andava attribuita? La pronuncia Cristo o viene detta contro di lui? La faccenda, asserivano le parti in causa nel corso del processo, cambia del tutto, al fine di definire il contenuto blasfemo o meno della tavola. Questo Cristo è strumento dei generali e manda in guerra la popolazione esortandola al sacrificio della propria vita o subisce la guerra diventando anche lui vittima sacrificale di poteri più grandi, che lo annientano come un qualsiasi soldato mandato al fronte?

Per le notizie riportate in questo breve pezzo si rimanda ai seguenti lavori:

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La Venere dopo le ceneri

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Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci , 2024, piazza del Municipio, Napoli.

Opera molto nota di Michelangelo Pistoletto, la Venere degli stracci risale al 1967. Si tratta di una riproposizione della Venere con la mela (1813–1816) di Berte Thorvaldsen, alla cui bellezza classica e intangibile viene affiancato un cumulo di stracci.

Ne sono state realizzate da allora molte versioni, custodite in diverse collezioni: alla Tate di Liverpool, al Castello di Rivoli, oltre che al MADRE di Napoli.

La Venere del Maschio Angioino

Questa ulteriore versione, che si potrà vedere probabilmente solo fino a fine giugno 2024 sempre a Napoli, in piazza del Municipio, dalle parti del Maschio Angioino, ha dimensioni monumentali e una storia già molto lunga e travagliata.

Acquistata dal Comune di Napoli, era stata collocata a piazza del Municipio il 28 giugno 2023, tra qualche polemica, notevole incomprensione circa il suo valore e significato e nemmeno troppi onori di cronaca. Ma il 12 luglio 2023, esattamente due settimane dopo l’inaugurazione, alle cinque del mattino, un incendio doloso l’aveva distrutta e la Venere napoletana era improvvisamente diventata argomento di articoli e discussioni sulla stampa nazionale e estera. Il rogo di cui era stata oggetto, insomma, aveva incendiato il dibattito pubblico.

Si era subito pensato a un gesto intimidatorio, poi all’atto vandalico di una baby-gang, molti artisti e personaggi pubblici avevano solidarizzato con Michelangelo Pistoletto, il quale aveva dichiarato: “La distruzione della Venere degli stracci non mi stupisce. Mi spaventa perché mi mette davanti a una situazione drammatica del nostro tempo. Un tempo in cui si continua a rispondere a qualsiasi proposta di bellezza, di pace e di armonia con il fuoco e con la guerra. Mi sembra quasi l’eco di quel che sta succedendo nel mondo dove c’è gente che dà fuoco da tutte le parti”. E poi: “Ci sono fuochi ben più gravi, ben più pericolosi che consumano la vita delle persone. Questa Venere rappresenta la rigenerazione, rappresenta la possibilità che ci sia armonia tra gli estremi, ovvero la bellezza e la brutalità. Purtroppo vediamo che la brutalità riemerge continuamente”.

L’autore del rogo era stato individuato e rintracciato nel giro di un giorno, grazie alle telecamere di sorveglianza presenti nell’area: si trattava di un clochard con problemi mentali. Uno abituato a frequentare lo squilibrio più che l’armonia, insomma, gli stracci più che la divina bellezza.

Ai primi di dicembre del 2023 il clochard è stato condannato a quattro anni di reclusione e al pagamento di una multa di quattromila euro. Anche questa condanna ha sollevato molte polemiche, essendo parsa a molti troppo pesante, eccessiva.

La Venere dopo le ceneri

Essendo del tutto irrecuperabile, Pistoletto ha rifatto l’opera utilizzando materiali ignifughi e l’ha donata gratuitamente alla città di Napoli. I soldi del crowdfunding raccolti per la sua ricostruzione sono stati devoluti a progetti sociali destinati a persone affette da disabilità intellettiva e a donne in regime di detenzione.

Io ho fatto in tempo a vederla qualche giorno fa in piazza Municipio, mentre portavo a spasso per Napoli sessantatre ragazzini e ragazzine in viaggio d’istruzione. È stata una visione fugacissima, quei ragazzini mi tiravano verso via Toledo, dove volevano andare al più presto a far compere. E verso la meta assoluta e prepotente dei loro desideri: la piazza dei quartieri spagnoli con il murale di Maradona. Non saprei dire dunque se è vero quel che dicevano alcuni detrattori dell’opera: che risulterebbe “sbagliata” perché fuori scala sarebbe il rapporto dimensionale tra la Venere e gli stracci.

A fine giugno 2024 la Venere dovrebbe essere spostata nella Basilica di San Pietro ad Aram, tra Forcella e Napoli Centrale. Saranno i giovani del progetto Policoro a prendersene cura e a guidare i visitatori alla scoperta dell’opera. Tra questi, c’è anche l’intenzione di coinvolgere il clochard autore del rogo dell’anno scorso.

La nuova collocazione produrrà, di fatto, un definitivo slittamento di senso della Venere, facendola diventare una sorta di opera sacra. Anche la Basilica che la ospiterà cambierà nome, se ho ben capito, e dunque verrà investita anch’essa di una nuova significazione, diventando la Cattedrale della Carità. Il rischio è che la dea pagana, entrando in chiesa, con un ulteriore scarto di senso, si converta e diventi quasi una madonna cristiana, protettrice dei poveri.

Ma questa è una storia non ancora scritta, di cui nulla si può dire. Prerogativa di tanta arte contemporanea è il gioco di relazioni che si instaura con lo spazio e con il contesto, e che genera significato in una sorta di continua riscrittura che rende le opere non definite in sé ma porose agli eventi e agli accidenti. La Venere napoletana di Pistoletto sembra destinata a diventare quasi un caso esemplare di questo caratterisco procedimento o processo.

Le notizie sulle vicende napoletane della Venere degli stracci le ho tratte per lo più dai seguenti articoli: https://www.artribune.com/attualita/2023/07/venere-stracci-opera-sbagliata/, https://www.quotidiano.net/napoli/venere-stracci-condanna-clochard-jk6v10w8, https://www.doppiozero.com/la-venere-degli-stracci-restituita, https://www.ilsole24ore.com/art/la-venere-stracci-pistoletto-ritorna-napoli-AFSe9QxC

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Corpo felice

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un’opera e un libro

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Pierre-August Renoir, “La baigneuse blonde”, oil on canvas, 90×63 cm,  1882, Pinacoteca Giovanni e Mariella Agnelli di Torino.

Roberta Scorranese, “A questo serve il corpo”, Milano, Bompiani, 2023

“Questo corpo felice appartenne ad Alice Charigot, compagna e poi moglie dell’artista: la pienezza delle forme sembra tutt’uno con le onde dei capelli sciolti e con quelle del mare della baia di Napoli, sullo sfondo. Il corpo della bagnante bionda è felice perché sembra nato per esistere in quel momento, in quel posto, in quella donna. È il prolungamento di un orizzonte e abita in luogo con la naturalezza di un arbusto spontaneo. Nulla sembra sbagliato in un corpo felice: i chili di troppo, le rughe, la magrezza eccessiva cancellati dalla disinvoltura con cui è abitato”.

(Roberta Scorranese, “A questo serve il corpo”, Milano, Bompiani, 2023)

L’opera: “La baigneuse blonde” appartiene a una fase successiva al celebre periodo impressionista. Negli anni ottanta infatti, approfondendo lo studio dell’arte antica e in particolare di Raffaello, Renoir definisce con maggiore precisione il contorno delle figure, sullo sfondo di uno spazio circostante che rimane invece ancora di matrice impressionista.

Il libro: il libro della Scorranese, giornalista che si occupa di arte figurativa sulle pagine del Corriere della Sera, è un interessante esempio di come si possa coniugare in maniera equilibrata riflessione sull’arte e narrazione. Si tratta di un percorso sul tema del corpo (soprattutto femminile) per come è stato messo a tema nell’arte antica e contemporanea di tradizione occidentale.

Per altre notizie sul dipinto vai qui: https://www.pinacoteca-agnelli.it/collezione/la-baigneuse-blonde/

Per altre notizie sul libro vai qui: https://www.bompiani.it/catalogo/a-questo-serve-il-corpo-9788830105713

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Guerra

sotto_lineature – un’opera e un libro

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«Se me lo raccontavano non ci avrei mai creduto. Adesso non camminavo manco troppo male, insomma duecento metri alla volta. Era abominevole dovunque come sofferenza, da sotto il ginocchio fino a dentro alla testa. A parte questo, l’orecchio era poltiglia sonora, le cose non erano affatto più le stesse né più come prima. Sembravano di mastice, gli alberi non stavano mai fermi, la strada sotto le scarpe faceva salite e discesette. La giubba e la pioggia, non avevo più nient’altro addosso. E sempre nessuno. La tortura alla testa la sentivo fortissimo nella campagna così grande e vuota. Mi facevo quasi paura da solo ad ascoltarmi».

( Louis-Ferdinand Céline, Guerra, Adelphi, 2023)

L’opera: esposto nell’estate del 1920 alla  Prima mostra internazionale dada organizzata nella galleria antiquaria di Otto Burchard a Berlino, Mutilati di guerra – con autoritratto di Otto Dix è stato tra i quadri messi alla gogna nel 1937 nell’esposizione nazista dell’arte degenerata. Oggi risulta disperso.

Il libro: romanzo inedito di Céline, composto di duecentocinquanta fogli manoscritti e ritrovato di recente, Guerra è stato pubblicato per la prima volta da Gallimard nel 2022 e in Italia, da Adelphi, nel 2023. Narra episodi contemporanei a quelli raccontati nella prima parte di Viaggio al termine della notte e ripercorre dunque l’esperienza al fronte durante il primo conflitto mondiale.