Categoria: Immediati dintorni

Maredolce

Diciamo che capita. Ma dire che capita suona come un tentativo di autoassoluzione. Diciamo che capita che, nonostante i tuoi numerosi giri, la tua pretesa di conoscere benissimo la città in cui vivi da circa vent’anni, ti si spalanchino abissi di ignoranza. Ti rendi anche conto che capita non solo a te, ma a molti, con cui ti ritrovi a dire: esisteva un posto del genere e non l’avevamo mai visto?

Diciamo anche che ci sono libri che sanno andare al di là di ciò che raccontano. Che invitano a percorsi ulteriori, approfondimenti, nuovi attarversamenti. E case editrici che, vasi di coccio tra vasi di ferro, hanno saputo/dovuto affilare la propria capacità di riconoscere dietro a un libro una forma di vita piena e consistente per riuscire a fare proposte editoriali significative dalla propria piccola e sempre instabile trincea.

Diciamo anche che per fortuna ci sono librai e librerie che sanno immaginare modi diversi di proporre ai lettori un libro: di farlo vivere, conoscere al pubblico, circolare. Soprattutto in un periodo come questo, in cui è ancora molto difficile organizzare presentazioni nei propri spazi. E sanno coinvolgere associazioni e realtà della città per portare a termine compiutamente tali proposte.

Diciamo allora che la libreria di cui stiamo parlando è la Modus Vivendi, il libraio Fabrizio Piazza, la casa editrice è Mesogea, il libro è Storie di Maredolce, l’autore del libro Nino Russo e l’Associazione è quella del Castello e Parco di Maredolce di Palermo. E che l’iniziativa si è svolta la mattina di sabato 19 Giugno.

Storie di Maredolce è una raccolta di storie e memorie su quello che oggi è un quartiere ormai pienamente saldato alla città e segnato da un’edilizia caotica e, per larga parte, desolata. Ma che era una borgata esterna alla città, anticamente immersa in una natura sorprendente, di cui oggi sopravvivono alcune tracce.

L’autore, studioso di Lingua e Letteratura Tedesca e traduttore di narrativa dal tedesco, dallo spagnolo, dal portoghese e dal neogreco, ha vissuto ed è cresciuto lì fin da bambino.

Questo è l’incipit del primo racconto, utile a inquadrare la faccenda:

Quando venni al mondo, le sorgenti che avevano alimentato per secoli il grande lago artificiale del castello della Favara, chiamato Maredolce, erano ridotte a quattro misere polle. Due, oggi prosciugate, spuntavano ai piedi degli archi arabi, catturate dai bacini di pietra ciascuno poco più grande di una vasca da bagno. La terza, abbondante, affiorava ribollendo sotto il livello stradale davanti alla chiesa di San Ciro. Formava un notevole specchio d’acqua di forma triangolare, un piccolo lago, ultimo residuo della celebre peschiera normanna. La quarta, più modesta, era una fonte sotterranea in mezzo agli agrumi, lontana dalle altre; la raccoglievano i serbatoi di un minuscolo edificio per metà interrato detto urna. Da ragazzo vi scendevo con trepidazione. Avvertivo in quell’ipogeo acquatico la presenza di creature invisibili che si divertivano a turbare il visitatore assetato.

Nino Russo, Storie di Maredolce, Mesogea, 2021

Alternando la propria voce a quella di Ida Tedesco Zammarano, che ha letto brani del libro di Nino Russo, Giovanni Castellana ha fatto da guida, alla scoperta del sito archeologico che si estende attorno all’antico castello della Favara, narrando una storia lunga dieci secoli.

Il castello della Favara prende il suo nome dal termine arabo fawwara (“fonte che ribolle”). Le favare erano appunto polle di acqua che risaliva ribollendo dal sottosuolo, provenienti dal Monte Grifone che domina l’area di Maredolce.

A ridosso di quelle acque l’emiro Ja’far aveva costruito nel X secolo una residenza. Il re normanno Ruggero II nel 1071 ne realizzò (su quell’antica di Ja’far) una propria, che pose al centro di una cittadella fortificata comprendente anche una peschiera e un hammam. Raccolse le acque delle favare tramite una diga fino a formare un lago, al centro del quale si estendeva un’isoletta a forma di Sicilia. Più che di un castello vero e proprio si trattava dunque di un solacium, un giardino dei piaceri, la riproposizione di un piccolo paradiso in terra: simile dunque, per concezione e destinazione, al più noto e celebrato castello della Zisa, di cui è più antico di almeno un secolo.

Un poeta dell’XI-XII secolo, ‘Abd al-Rahman di Trapani, segretario e membro della corte reale di Ruggero II, in un componimento poetico in lingua araba, lo descrive così (la traduzione è di Mario Luzi):

Aduna Favara dei due mari ogni valore e pregio

una vita piacevole la bellezza dei luoghi senza uguale

si diramano in nove ruscelli le tue acque

e quel loro fluire separate che incanto!

la battaglia d’amore ha il suo terreno al centro tra l’uno e l’altro mare

e in riva al tuo canale la passione attende

oh il lago delle due palme che meraviglia! e il palazzo

sovrano eretto in mezzo al lago che lo cinge

le acque pure e chiare dei due rami di mare

sono perle liquefatte tutta quella liscia lama è un lago

[…]

Poeti arabi di Sicilia, a c. di F. M. Corrao, Mesoega, 2002

Dopo numerosi passaggi di proprietà che ne hanno stravolto aspetto e usi (nel Trecento è stato adibito anche ad ospedale) il Castello è arrivato ai nostri giorni davvero malridotto. Nel secondo dopoguerra è stato abitato da decine di famiglie. Soppalcato, frazionato, vi sono stati costruiti dentro cucine e gabinetti, sono stati sventrati perfino archi portanti per mettere in comunicazione stanzette e ricavare nuovi ambienti. La sua corte è diventata una piazzetta asfaltata, parcheggio di macchine che d’estate si riempiva di sedie e tavolini perché gli abitanti godessero un po’ di fresco.

Nel 1992 la Regione lo acquisisce tramite esproprio. Dopo il 2007 dà avvio al restauro. Oggi il castello e il parco sono visitabili, anche se l’apertura pare risulti un po’ troppo intermittente. Si ha l’impressione che le potenzialità del sito siano enormi. Il posto è eccezionale dal punto di vista storico-culturale. Offre stimoli affascinanti di tipo archeologico, paesaggistico, naturalistico, che andrebbero valorizzati attravreso iniziative costanti di promozione e fruizione. E invece, anche solo la sua fruizione turistica è oggi, di fatto, ai minimi termini, nonostante la città abbia costruito proprio attorno ai percorsi della Palermo arabo-normanna le sue recenti, principali proposte.

Per approfondire la storia del castello di Maredolce e saperne di più, si può consultare il sito dell’Associazione Castello e Parco di Maredolce a questo link: https://www.associazionecastelloeparcodimaredolce.org/storia/

Tutti gli appunti sugli Immediati dintorni pubblicati su questo blog li trovi qui: https://www.mariovalentini.net/category/immediati-dintorni/

La più bella vagabonda di Palermo

La puoi trovare addossata al ciglio di una strada, tra cicche e cartacce e fumi di macchine che vanno e vengono. O se ne sta tranquilla in qualche campo di periferia, nel cuore di un parco cittadino o in uno di quei numerosi spazi indecisi che si trovano nel cuore della città vecchia.

Nonostante sia randagia e incolta, certi giorni è proprio bella: ha un portamento elegante, sembra voler mostrare a tutti il suo fascino esotico. Se ne vanta quasi. In pieno maggio non la puoi non notare: ha un’energia esplosiva e, se sosta al bordo di una strada, arriva a riempire di sé la carreggiata.

La incontri dovunque. Circola, gira, si sposta rapida, viaggia per la città. Per un intero mese, ricordo, l’anno scorso, me la sono ritrovata negli angoli più impensabili di Palermo, la città in cui vivo. Andavo a correre nel parco della Favorita. Finita la zona del bosco, prendendo il largo vialone che scende giù verso Mondello, in quell’ampia valle da cui inizia tutto il declivio che conduce ai piedi di Monte Pellegrino c’erano distese e distese di questa vagabonda, con le sue piume leggere dai riflessi tra un viola molto tenue e il rosa.

Parco della Favorita, Palermo

Qualche giorno dopo ero in macchina. Stavo andando a riempire qualche bidone d’acqua in un posto di montagna che si chiama Giacalone. Me la sono ritrovata ai bordi della strada che circonda la città di Monreale. Bivaccava, addossata al guard-rail o appoggiata ad un muretto.

Monreale (PA)

La settimana dopo avevo appuntamento in città con un mio amico. Dovevamo incontrarci in un bar di fronte a un cinema che si chiama Tiffany. Posteggio nei pressi di una piccola rotonda spartitraffico, scendo dalla macchina, faccio un giro per controllare che la macchina sia messa bene. E chi mi trovo davanti? Proprio lei. Si era installata anche lì, in alti ciuffi, tra il cemento e la pietra.

Viale Piemonte, Palermo

Passa qualche giorno, vado di nuovo a correre, cambiando percorso. E la vedo di nuovo. Stava al di là di un cancello, nel cuore di uno dei parchi archeologici della città, lungo le brevi scarpate e gli antichi muri del Castello a mare.

Parco archeologico del Castello a mare, Palermo

Bell’abissina

Il suo nome è Pennisetum. Pennisetum Setaceum, ad essere precisi. Ed è, forse, la più bella erbaccia di Palermo.

Il suo arrivo in città si inscrive nella storia dell’Italia coloniale. Come sia andata lo racconta Stefano Mancuso ne L’incredibile viaggio delle piante, un bel libro che riesce a far diventare le vicende di migrazione delle piante storie appassionanti da leggersi come romanzi d’avventura.

Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Editori Laterza, 2018

Proveniente da un paese da poco colonizzato, l’Etiopia, il Pennisetum setaceum inizia a colonizzare la Sicilia a partire dal 1938:

Il Pennisetum setaceum arriva in Sicilia nel 1938, grazie all’interesse del professor Bruno, preside della facolltà di agraria, il quale procuratosi un campione di semi li sparge all’interno del giardino coloniale annesso all’orto botanico di Palermo, e inizia a studiare le caratteristiche di crescita e produttive della pianta, in vista di un suo possibile uso come foraggio per gli animali. […] Purtroppo, la specie, nonostante si adatti magnificamente al nuovo ambiente, ha una bassa capacità nutritiva. Inoltre gli animali non sembrano gradirla. […] Si decide di eliminarla dal giardino coloniale per lasciare posto a nuove sperimentazioni. Ed è qui che la sua avvenenza interviene, salvandola. Notata, infatti, la bellezza della fioritura, i tecnici dell’orto botanico decidono di mantenerla in coltivazione e di valutarne le potenzialità come pianta ornamentale.

Stefano Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, Editori Laterza 2018 (pagg. 46-47)

La pianta scappa dal giardino, probabilmente grazie alla complicità del vento. Ha infatti semi leggerissimi e spumosi che si propagano facilmente nell’aria. Comincia a crescere nelle aiuole e nelle aree abbandonate nei dintroni dell’orto botanico e da lì inizia il viaggio. Mancuso afferma che esistono delle vere e proprie mappature della sua diffusione negli ultimi decenni, da cui si vede come la conquista della Sicilia sia avvenuta attraverso le reti stradali, e dunque grazie ai veicoli.

Le vagabonde

Le vagabonde – così le chiama Gilles Clément- sono piante che con grande facilità si mettono in viaggio: sconfinano, colonizzano spazi, oltrepassano le barriere create dagli uomini. Non le fermi alla dogana, non puoi ispezionare il loro passaporto, si prendono gioco dei confini tra gli stati, attraversano nazioni e continenti eludendo ogni possibile controllo.

Come facciano, per quali vettori, è storia risaputa. Ma questa storia nessuno la racconta meglio di Gilles Clément:

Le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento.

Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polveri fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili.

Il caso organizza i dettagli, per la diffusione delle specie ricorre a qualsiasi vettore. Non c’è nulla che non sia adatto al trasporto: dalle correnti marine alla suola delle scarpe. Ma la gran parte del viaggio spetta agli animali. La natura prende in prestito gli uccelli consumatori di bacche, le formiche giardiniere, le docili pecore, sovversive, il cui vello racchiude campi e campi di sementi. E poi l’uomo. Animale tormentato in continuo movimento, libero scambiatore di diversità.

Gilles Clement, Elogio delle vagabonde, DeriveApprodi, 2010 (pag. 20)

Gilles Clément ne fa quasi una questione politica. Le vagabonde scompaginano i paesaggi. In tempi di revanscismo identitario, in cui la figura dello straniero viene descritta come quella di un nemico, anche le vagabonde subiscono la loro parte di discriminazione:

Per cominciare, ce la prendiamo con gli esseri che con quel luogo non hanno niente a che fare. Soprattutto se lì sono felici. Anzitutto eliminare, poi si vedrà. Regolare, registrare, fissare le norme di un paesaggio, le quote di esistenza. Definire nemici, pestilenze o minacce gli esseri che osano valicare questi limiti. Istruire un processo, diefinire un protocollo d’azione: dichiarare guerra.

Gilles Clément, Elogio delle vagabonde, DeriveApprodi 2010 (pag. 22)

Se Gilles Clément “vede nella molteplicità degli incontri e nelle diversità degli esseri altrettante ricchezze apportate al territorio”, con un termine chiaramente spregiativo queste piante vengono invece chiamate dai più invasive o, peggio, infestanti. In quanto aliene o straniere, sono considerate portatrici di minacce. Entrano in competizione con le specie autoctone, riducendone lo spazio vitale. Effettivamente alcune di loro, introdotte per sbaglio o per troppa superficialità in un determinato ecosistema, pare abbiano avuto la capacità di mettere in ginocchio economie. Gli effetti di piante fortemente invasive come l’Eichhornia crassipes, il giacinto d’acqua, vengono descritti così, ad esempio, sul portale dell’Invasive Species Specialist Group:

E. crassipes è una delle peggiori piante infestanti del mondo (Holm et al. 1977, in Room and Fernando 1992). La gente l’ha diffusa nella maggior parte delle regioni tropicali e subtropicali del mondo, dove forma spessi tappeti che ricoprono le risaie, intasano i canali d’irrigazione, impediscono la navigazione, bloccano la pesca, spazzano via edifici durante le inondazioni e favoriscono la riproduzione di zanzare portatrici di malattie (Carter 1950, Chow et al. 1955, Williams 1956, Kotalawala 1976, in Room and Fernando 1992).

http://issg.org/database/species/impact_info.asp?si=70&fr=1&sts=&lang=EN

Anche questa vagabonda, come il Pennisetum, è bellissima. Forse ancor più bella. Tanto bella quanto maligna. Per questo l’hanno voluta coltivare gli orti botanici di mezzo mondo, dai quali è poi scappata, propagandosi e invadendo velocemente interi specchi d’acqua.

Riesce a raddoppiare la propria biomassa in pochissimo tempo: dai sei ai diciotto giorni. Ne sanno qualcosa sul Lago Vittoria, in Africa, dove ha invaso quasi per intero il versante ugandese intasando canali, finendo nelle chiuse di un impianto idroelettrico e causando l’incremento delle malattie diffuse da vettori.

Una femme fatale, insomma. Una vampiressa. Te ne innamori. Ma poi mentre la baci, e lei si lascia baciare, ti morde il collo, ti succhia il sangue.

Eichhornia crassipes (giacinto d’acqua)

L’arte e la corsa N° 2

[i precedenti appunti dedicati all’arte e alla corsa si possono leggere qui: https://www.mariovalentini.net/larte-e-la-corsa/ ]

L’effetto Dunning-Kruger

Si chiama effetto Dunning-Kruger, dal nome dei due psicologi che l’hanno studiato: è una distorsione cognitiva per la quale persone scarsamente competenti in una materia tendono a sopravvalutare nettamente la propria esperienza in quel campo. Di contro, invece, chi ha reale e profonda competenza tenderebbe a sminuirsi. Non so quanto sia ancora ritenuto valido lo studio di questi due psicologi, che risale al 1999, non ne ho competenza. Credo di avere capito che nel tempo la sua validità sia stata in parte ridimensionata.

Però dalla mia posizione di perfetto incompetente, affermo con certezza cognitivamente distorta che questo fenomeno è, per certi versi, la malattia del secolo nuovo. Abita gran parte dei social network e, ad esempio, se vai a leggere un buon numero di post di facebook, ne sono affette almeno quattro persone su cinque.

Per quel che mi riguarda, facendo una rigorosa autoanalisi, il massimo livello di effetto Dunning-Kruger a cui riesco ad arrivare, più che sui social network lo raggiungo ogni volta che torno da correre. Però per fortuna poi passa e si ridimensiona. Almeno in parte. Quando si attenua l’effetto euforizzante delle endorfine, infatti, torno quasi sempre a valutazioni più realistiche.

Ma ogni volta che torno da correre mi aggiro per casa, straparlo con chi mi capita sotto tiro e inizio a elogiare in maniera smodata il mio eccezionale stato di forma, l’eccezionalità del tempo cronometrato in pista (che poi non è una pista ma una semplice villa comunale) e le doti atletiche espresse fino ad appena dieci minuti prima sul campo d’allenamento.

Effetto Dunning-Kruger allo stato puro: evidente e del tutto irrealistica incomprensione dei miei limiti. Poi, appunto, passa presto, per fortuna.

Murakami Haruki e le endorfine

Non ricordo, francamente, se e quanto Murakami Haruki parli dell’effetto euforizzante delle endorfine nel suo libro capitale sulla corsa, dal titolo puro e cristallino L’arte di correre. Però, certo, siccome sotto sotto un po’ si autocelebra e forse anche si sopravvaluta, nasce il sospetto che anche Murakami Haruki in quel libro un po’ cada nella trappola dell’effetto Dunning-Kruger. Chissà se è davvero tanto esperto di corsa quanto dichiara.

Ma almeno per una volta voglio parlare di corsa (e arte) senza per forza parlare male di Murakami Haruki. Andiamo oltre, dunque, e liquidiamo il paragrafo sul nascere.

Turismo (culturale) di corsa

Per me, che a mente fredda devo ammettere di non conoscere l’arte di correre, l’arte e la corsa si incontrano in questo: che mentre corro osservo, scovo, scopro o anche solo rivedo opere d’arte che mi piacciono.

Più che un libro sull’arte di correre a me piacerebbe scrivere un libro sulle numerose, virtuose occasioni che offre la corsa nel godimento dei beni archiettonici, monumentali e artistici di una città. Quasi una guida turistica, insomma, forse un po’ sbrigativa, visto che tutto quello che c’è da vedere, secondo la guida andrebbe visto di corsa. Un turismo culturale in scarpette da running, pantaloncini corti e maglietta sudata.

Porta Felice e Loggiato San Bartolomeo, a Palermo, visitati di corsa

Ne avrei già pronti alcuni capitoli, e non tutti riguardanti la città di Palermo, in cui abito. Ho anche qualche capitoletto già bello e pronto su Bologna e su Verona, città in cui sono andato a fare il turista di corsa appena un anno fa, poco prima che iniziasse la pandemia.

Se qualche editore fosse interessato, si faccia vivo lui, ché io ora non ho tempo: sto andando a correre. Però se gli interessa facciamo una cosina fatta per bene, con tutte le fotografie al posto giusto, schede, tempi di percorrenza. Possiamo metterci perfino delle indicazioni sul fondo stradale e sulla difficoltà del porcorso. Dividiamo tutti i percorsi in quattro fasce: facile, intermedio, difficile, professionisti. Una cosina proprio fatta a modo, insomma. Elegante. Pulita pulita.

Rinvenimento di un polpo tra i palazzi

La Cala, Palermo

L’altro giorno, per esempio, ero partito come al solito da casa mia ed ero arrivato alla Cala di Palermo, luogo in cui mi aggiro ogni domenica per correre in lungo e in largo a ridosso del mare e nei pressi del porto. Dopo essere andato un po’ in direzione Messina, invece di fare più volte avanti e indietro tra i due porticcioli della Cala e di Sant’Erasmo, come faccio di solito, a un certo punto ho cominciato a correre decisamente lato Trapani, cosa che non faccio mai per via delle troppe macchine.

Dopo avere costeggiato per un po’ il porto sono andato oltre, ho lambito per qualche centinaio di metri il carcere dell’Ucciardone e, arrivato in cima a un cavalcavia, ho girato a destra, verso i cantieri navali.

Per un momento, non consideriamo la tristezza del posto (e della sua funzione). In quanto edificio storico costruito ai primi dell’Ottocento anche l’Ucciardone potrebbe essere considerato un monumento e dunque si potrebbe anche guardare come opera architettonica. Ma quel giorno volevo piuttosto andare a vedere, brevemente, dall’esterno, senza nemmeno smettere per un minuto di correre, l’Arsenale della Real Marina.

Non ci andavo da molto tempo e siccome è un edificio che mi è sempre piaciuto moltissimo e ultimamente siamo stati sempre reclusi a casa, volevo tornare a godermi almeno per poco quell’edificio del Seicento e il piazzale antistante.

Fatta una visitina velocissima all’Arsenale, ho poi ripreso la strada del ritorno. Sono arrivato in cima al cavalcavia: l’Ucciardone davanti, i Cantieri Navali e l’Arsenale alle spalle. Ho girato a sinistra e giù! in picchiata dal cavalcavia, lungo il perimetro del porto!

Tornando così verso la Cala, sempre correndo, a un certo punto ho visto un polpo. Un polpo gigante, che forse era dunque una piovra, non so. Non sono molto esperto di pesci, crostacei e cefalopodi. Il polpo era quello che ora faccio vedere nella foto. Si intravedeva tra i fianchi di due palazzi, all’imbocco di una strada che se la percorri ti porta proprio nel cuore di un quartiere che si chiama Borgo Vecchio.

Murale di Ema Jons in via dello Speziale (Borgo Vecchio, Palermo), realizzato nel 2014

La street art e la corsa

La cosiddetta street art mi piace molto. Ma non sono affatto convinto delle capacità taumaturgiche che molti le attribuiscono, ovvero della capacità di guarire (o rigenerare) quartieri degradati con il suo solo apparire. Però, certo, è anche vero che se non avessi visto il polpo sulla facciata dell’edificio mai e poi mai avrei attraversato la strada per guardarlo meglio. E se non avessi attraversato la strada per guardarlo bene, non mi sarei inoltrato in quel pezzettino di vicolo da cui inizia Borgo Vecchio. E non mi sarei mai potuto accorgere di quegli altri tre o quattro grandi murales che si trovano lì dietro, in un parcheggio, che poi ho scoperto essere il parcheggio dell’Hotel Ibis.

Murale di Mr. Thoms e ZED 1 nel parcheggio dell’Hotel Ibis (Borgo Vecchio, Palermo) – realizzato nel 2015

Così mi sono introdotto abbastanza stupito nel parcheggio. Ammirando quei grandi murales della cui esistenza, prima, nulla sapevo, ho pensato: “ecco le virtù del turismo di corsa. Perfino nella tua città, che pensi di conoscere benissimo, se ti dedichi al turismo di corsa scovi delle cose che hai sempre ignorato”.

Murale di Rosk nel parcheggio dell’Hotel Ibis (Borgo Vecchio, Palermo) , realizzato nel 2015

Poi, certo, tornato a casa, mi sono documentato. Possiedo un libro sulla Street Art in Sicilia, fatto proprio bene: lì ho trovato tutte le notizie che mi occorrevano.

Il quartiere Borgo Vecchio – riferiscono gli autori Mauro Filippi, Marco Mondino e Luisa Tuttolomondo – a partire dal 2012 ha visto la realizzazione di almeno tre laboratori nel corso dei quali alcuni artisti hanno lavorato con bambini da 5 a 15 anni per realizzare dei murales in tutto il quartiere. Il primo, dal titolo Frequenza200 e organizzato dalle associazioni Per Esempio e Arteca, è stato portato avanti proprio nel 2012 da Ema Jons (http://emajons.blogspot.com/)

Un secondo laboratorio è stato organizzato con la collaborazione dell’associazione PUSH, ed ha dato vita al progetto Borgo Vecchio Factory. Così lo descrivono gli autori:

nel novembre 2014 viene avviato un nuovo ciclo di laboratori che partendo da una fase preparatoria di disegno, sviluppata all’interno del centro sociale del quartiere, portano poi alla realizzazione dei murali esterni. La maggior parte di questi segue e riproduce forme e idee venute fuori durante la parte iniziale del workshop e viene realizzata insieme dai bambini e dall’artista, altri invece direttamente dall’artista, che pur rivisitando i soggetti si mantiene però fedele in forme e colori ai bozzetti iniziali.

Street art in Sicilia. Guida ai luoghi e alle opere, Dario Flaccovio editore
Mauro Filippi-Marco Mondino – Luisa Tuttolomondo, Street Art in Sicilia. Guida ai luoghi e alle opere, Dario Flaccovio Editore

I murales realizzati nel parcheggio nascono invece per committenza privata dello stesso Hotel Ibis, che nel luglio 2013 chiama gli artisti Corn79 (http://www.corn79.com/), Mrfijodor (http://www.mrfijodor.it/), Hunto, DMS, Mr. Thoms (http://www.thoms.it/), Zed1 (http://www.streetness.it/artisti/zed1/) e Rosk (http://www.streetness.it/artisti/roskloste) con l’incarico di ridisegnare i muri che danno sul parcheggio. La committenza dà agli artisti un tema comune su cui lavorare: la società civile siciliana. Una di queste opere, facendo chiaro riferimento alla mafia e alla sua capacità di estendere i tentacoli sulla città, riproduce anch’essa una piovra. Si tratta di una specie di piovra tecnologica: un robot-piovra che tra le altre cose abbranca una barca carica di migranti. Altre due invece sono ispirate a Giuseppe Fava, e in calce riportano una sua frase:

A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare?

Giuseppe Fava
Dettaglio del murale di Mrfijodor e Corn79 dedicato a Pippo Fava nel parcheggio dell’Hotel Ibis, Palermo

E così, dopo avere letto questa frase, me ne vado verso casa, baldanzoso per com’ero arrivato. Con, nel bagaglio, oltre a un corpus di cinque-sei opere d’arte che prima non conoscevo, anche un insegnamento di Pippo Fava. Arte utile e dilettevole, insomma, che sappia piacere e insegnare. E tutto questo grazie alla corsa. 14 km di fatica e sudore spesi bene.

Sommaria mappatura di un muro

Sommaria mappatura di un muro perimetrale di un giardino pubblico animato da qualche graffito.

Effattuando uno zoom con lo smartphone occasionale mezzo disponibile allo scopo emergono muffe macchie crepe superfici porose in cui l’occhio ritrova inaspettate emersioni di quanto ammirato negli anni in certi maestri, realizzato con ben altra perizia e attrezzatura. Ma mi accontento del mio poco. E questi frutti acerbi di un approccio rozzo e sommario li salvo comunque tra i miei appunti come tracce di un viaggio negli immediati dintorni.

Per renderli un po’ familiari metto nel mezzo parole. Senza virgole con pochi punti e pochi accapo eliminando pause e toni certo non con l’ambizione di riuscire a riflettere a pensare ma almeno nel tentativo di tenere traccia di quei pochi movimenti essenziali in cui si è ristretta ormai da qualche tempo la nostra esperienza del mondo.

Giro e rigiro tra spazi di prossimità, giusto qui nei paraggi o appena più in là, non molto lontano da casa, e non potendo sorprendermi di ciò che è distante ed estraneo cerco qualcosa che ancora possa risultare inedito nel più familiare dei paesaggi.

Abbiamo passato e ripassato con cura in questi mesi i muri che ci hanno contenuto (e separato). L’isolamento ci avrà resi davvero esperti osservatori del minimo dettaglio? Abbiamo ispezionato le nostre tane, i cunicoli, le pareti domestiche cercando la breccia o l’apertura che ci potesse fare sconfinare oltre quel muro anche interiore che è stato ed è ancora la nostra naturale e esclusiva visione.

Cartografiamo così il nostro percorso che fatica anche solo a immaginare un altrove in cui (andando) perdersi e che segue un movimento circolare a sinusoide a spirale: è questo spazio – uno spazio labirinto- quanto meno per ora – il nostro unico e inevitabile camminamento?