Categoria: appunti

Petraio di Silvio Perrella nei miei appunti

(cover: da Radure di Antonio Biasucci)

Pubblico qui, dritti dritti dai miei taccuini cartacei, gli appunti presi su PETRAIO di Silvio Perrella (La Nave di Teseo, 2021) in occasione della presentazione di UNA MARINA DI LIBRI (Palermo, Giovedì 9 Giugno 2022)

Un momento della presentazione di Petraio a Una marina di libri di Palermo

Come iniziare a parlarne

Paragone tra Doppio scatto (libro pubblicato da Silvio nel 2015 per Bompiani) e Petraio, evidenziandone lo scarto, ma mettendo anche in evidenza come l’uno nasca dall’altro e forse lo prosegue.

Si può leggere prima il pezzettino intitolato “Doppio scatto”, da Petraio [pagg. 15-16]

Doppio scatto

Nell’andare per le strade si cercano cornici, scorci rivelatori, dettagli che parlino.

Le cose nel loro aperto, squadernate nell’aria che passa come vento, fuggono. A volte le hai dinanzi agli occhi e non le vedi. Diventano invisibili.

È stato detto: per vedere bisogna avere visioni.

E non ci sono dubbi: la visibilità del mondo si acuisce se lo si incornicia. […]

Dietro ogni pietra ci sono un respiro, un’abitudine, un letto, una moltitudine di oggetti e lampade e lampadari e abat-jour.

Un dondolio di relazioni.

È bastato indietreggiare nello spazio del cortile, e da lì fermarsi improvvisamente a guardare.

La cornice si è fatta avanti con naturalezza. Gli occhi l’hanno cercata, trovata a istinto, e usata.

Nel silenzio del cortile si sono avvertiti due scatti: lo scatto della mente e quello di una scalcagnata e avventizia macchinetta fotografica.

Silvio Perrella, Petraio, La nave di Teseo, 2011 [pagG. 15-16]

e poi il brano sul Petraio presente in Doppio scatto [pag. 13], anche per chiarire che il Petraio è una delle scalinate di Napoli che collegano la città alta dalla città bassa:

Il Petraio, che bel nome. Fa pensare alle Rime Petrose di Dante. Ogni scalino è come un verso, un invito al saliscendi. E anche alle digressioni.

È vero, in genere si va dal Vomero al Corso, la Discesa del Petraio la si usa per congiungere in modo rapido due zone diverse della Città. Lo si fa quando si vuol fare a meno della Funicolare. E a scendere il passo è lieve […].

Costeggio i muri tufacei, impreco contro chi tenta d’incarcerarli nel cemento, passo le dita lungo i corrimani, saluto qualche raro passante (spesso si tratta di turisti stranieri con il fiatone), e scopro che ci sono altre scale oltre a quelle principali.

Prima dello slargo, dove incontrerò Tonino, c’è una possibile deviazione. Il ritmo suggerito dai gradoni è diverso […].

La ringhiera delimita con nettezza lo spazio, imprimendo, verso i tre quarti, una piccola curva sull’ascesa. […]

Qui è tutto fatto di pietra ma il mare non manca. Basta proseguire il cammino e guardare oltre il basso parapetto.

Silvio Perrella, Doppio scatto, Bompiani, 2015

Continuare poi così

Doppio scatto era un libro di luoghi attraversati, in cui l’esterno si poteva poi ri-attraversare, a volerlo fare, tornandoci anche da soli e riuscendo a ritrovare quanto descritto e raccontato. C’era un condurre per mano il lettore attraverso la superficie della città, grazie a un’osservazione geograficamente puntuale. Questo, Petraio, a me pare piuttosto un libro di meditazioni, in cui il luogo quasi sempre presto sfuma e non sai bene dove collocarlo, diventa pretesto e occasione per indagare pieghe, interstizi, trame e strati. Fino a perdere il fuoco (fotografico) del luogo per mettere a fuoco altro: qualcosa di molto piccolo o forse di molto molto più grande del luogo stesso. Qui, in Petraio, si saltano passaggi. Al lettore si dà appuntamento in un posto ma per portarlo poi subito da tutt’altra parte.

Usare l’analogia con gli obiettivi fotografici

Se Doppio scatto è una scrittura da obiettivo 50mm o al limite da grandangolo (c’è insomma la possibilità di leggere nitidamente il luogo entro il contesto in cui si colloca), qui in Petraio è lo zoom che la fa da padrone e certe volte addirittura il cosiddetto obiettivo macro (o, all’opposto, un campo lunghissimo che conduce quasi all’indistinto). Lo zoom indaga le pieghe e i dettagli, corrugamenti e statificazioni, spesso arrivando a astrarre del tutto il dettaglio dal contesto. La città non è più roba da cartografi (come in doppio scatto) ma da geologi e speleologi.

Usare un paragone (mooolto azzardato e un po’ minchione) con la fisica?

Lo scarto tra Doppio scatto e Petraio come quello tra la fisica newtoniana e la meccanica quantistica: uno spostamento di prospettiva che dall’analisi del visibile conduce alla materia e al subatomico.

Dire la necessità di tornare più volte a rileggere sempre gli stessi pezzi

Dire che è un libro che va meditato, bisogna tornarci su un po’ di volte sui diversi pezzettini che lo compongono. Come in un’indagine geologica (un carotaggio ad esempio) vai scoprendo sempre nuovi strati che a un primo sguardo più veloce ti erano sfuggiti.

Ad esempio, questi:

  • Per come l’ha sempre raccontata Silvio, Napoli è una città verticale. La posizione privilegiata d’osservazione, questa è l’impressione che ho sempre avuto, è lungo una delle sue numerose scalinate. Ed è quasi sempre nella direzione di chi scende. Attraversare Napoli ed esplorarla è per lo più come se fosse un andar giù. Ora, in Petraio, questo andar giù si fa ulteriore. È una verticalità che riguarda anche la materia di cui è fatta la città, non solo i suoi affioramenti cartografabili. Ed ecco l’attenzione per tutto ciò che è sommerso: “le catacombe, gli ipogei, le caverne di tufo…” (come si dice ad esempio nel brano a pag. 67, La piscina circolare del passato). Qui la (fortunata, visto che a quanto dice Silvio è quasi sempre chiusa) visita al cortile dell’Annunziata viene descritta come un avvitamento verso il basso, in un moltiplicarsi di cerchi concentrici. Ed è questa una forma del tempo. Un tempo ciricolare, non perché ciclico, ma perché è come un risucchio, uno sprofondamento, un avvitamento appunto. È questa una variante, abbastanza nuova, di quel particolare modo di esplorare la città che mi sembra abbia sempre predicato Silvio: che Napoli è una città che si scopre scendendo. Da dove e perché questo scendere?
  • Fermo immagine (pag. 70-71): ancora una volta il dettaglio (dei piedi di una giovane donna che sale una scalinata), che sfoca tutto l’intorno. Osservazione dei piedi, con il tacco, la suola, ecc.
  • E, superati i movimenti di sprofondamento: ecco i movimenti ascensionali. Spesso sono solo un girare gli occhi verso l’alto, per esempio a osservare una cupola.
  • Il tema del tempo: la deturpazione del tempo sul volto della madonna e del bambino (pag. 75-76) con i loro stessi volti “intaccati dalle insidie”; o il tempo che “si avvita verso il basso” nell’esplorazione del cortile dell’Annunziata; o il tempo che è presupposto nei diversi muri spellati di cui si parla in più punti (Un soffiatore di morte, pag. 29-30); o nello sfarinarsi della pietra tufacea (in Sinfonia petrosa a pag. 61-62 ad esempio); o il tempo che insidia l’integrità di un muro, che se metti un dito tra le sconnessure di due pietre potrebbe crollare incenerendosi (Questo muro scalalo, pag. 47-48); o come nella chiesa dimenticata di Come si tiene in piedi un moribondo (pag. 25-26).
  • Sempre il tempo (stavolta in rapporto ai mezzi di locomozione) – in Nell’aldilà del finestrino (pag. 111) è il treno (“il treno fugge via; arroventa le rotaie; è freccia che buca il tempo; è ingurgitatore di destinazioni e di destini”); ne Il vangoncino della funicolare è appunto la funicolare (“Il tempo scorre lento. Lo si è raffigurato spesso come un fiume. E in un celebre proverbio l’uomo capace d’aspettare sta sulla sponda, sapendo che prima o poi passerà il cadavere del proprio nemico… nello scendere il vangoncino fende gli strati del tempo; che scorre, certo, e s’infiltra nelle percezioni di questo attimo dilatato”); in La luce agglutinante (pag. 363-364): sosta in stazione, forse nell’edicola a lato hanno Cristo si è fermato a Eboli (“E se fossimo dopo Eboli? E se ci fossimo imbrigliati in uno di quei sotterfugi per il quale il tempo sembra fermarsi ed entrare in una fase di sospensione muta?”). In questi casi i mezzi di trasporto sembrano essere quasi delle porte spazio-temporali, capaci di proiettarti verso un tempo altro, verso un luogo altro, o per eccessiva accelerazione o per un irreale rallentamento. Ecco che la percezione del mondo lì fuori ancora una volta si sfoca, svanisce, si fa porosa di altri luoghi e di altri tempi. Qusta realtà diventa un’irrealtà. O, meglio, si popola di possibili presenze fantasmatiche: qualcosa che appare ma non è detto che ci sia. Apparizioni e vanificazioni (o vaneggiamenti?).
  • Tema del collezionare – Collezionista di scale (pag. 21-22) – Nell’aldilà del finestrino (pag. 110-11): “Ci si sposta negli spazi urbani; si va da qui a lì, cercando visioni e scorci; collezionando immagini-sentimenti; rimuginando frammenti di mondo” – in Il tempo dei passi persi (pag. 117-118): “Farsi collezionisti di andature è quello che le città suggeriscono… la sua è un’andatura perplessa. Piede sinistro in avanti, il destro in attesa del suo turno; il bastone obliquo”
  • Segni, alfabeti, grammatica, sintassi. Spesso sono segni di una lingua segreta, tutta da smorfiare, da tradurre, da interpretare come si interpretano i geroglifici. Come in Nel retromondo del muro (pag. 115): “Qui gli alfabeti fanno a gara. La città è nominata nelle sue torsioni. È funicolare singhiozzante. Tango glaciale… Le lettere sono vergate sul legno dipinto di verde, stella cometa e freccia… Sintassi a strappo, parole striate di sangue”. E poi, in Atmosfera dell’attesa (pag. 123-124): il treno verso i Campi flegrei, che lambisce le tombe dei poeti Virgilio e Leopardi, conduce a una “atmosfera dell’attesa, precipizio delle piante, strada ferrata, bàsoli, andirivieni: si guarda e mentre si guarda si forma un alfabeto per dare forma alle forme”. E infine il disegno dello scorfano che mangia parole di Vincenzo Gemito in L’alfabeto messo a sgocciolare (pag. 373-374).
  • Tema finale dell’estate e della fine dell’estate. Bellissimi gli ultimi tre pezzi: le due sedie a sdraio vuote e Rolling stones sopprattutto.

DIALOGHI CONTINUI

(alcuni costituiscono proprio il titolo stesso del pezzettino) – sono come un alfabeto per leggere gli spazi attraversati (ognuno ha il proprio alfabeto personale con cui intesse le sue scritture):

  • CELATI – Cinema all’aperto (pag. 81)
  • MONTALE + DE CHIRICO: Il teorema dellle ombre (pag. 80)
  • GIORGIO MORANDI: Come un quadro di Giorgio Morandi (pag. 45)- “oggi ogni elemento è un alfabeto” – “sì, ogni elemento è un alfabeto; non solo Abc, ma colore, oggetto, pietra, scansione, ritmo, volumetria” – “prosodia dello sguardo”.
  • THOMAS JONES (1742-1803) + EDWARD HOPPER – Come un muro di Thomas Jones (pag. 43) – breve storia di Thomas Jones, gallese giunto a Napoli: chi era, la sua sosta a Napoli, l’amicizia con Lusieri (uno dei maggiori vedutisti dell’epoca), la sua ricerca di muri (davvero belli i dipinti che ho trovato on-line), la donna amata – “Un Hopper in anticipo”
  • JOSEPH CORNELL (1903-1972) – Come le scatole di Joseph Cornell (pag. 41): “Tritume di muro. Nello stesso spazio affiora un arco. E sotto brilla il tufo. E i colori sono quasi circensi” – “cosa avranno da dire queste pietre sbilenche che stazionano in anfratti?” – “alfabeto smembrato e fatto a pezzi dall’usura; sempre riappare e balugina e dice se stesso come in un balbettio lontano”.
  • FABRIZIA RAMONDINO, Althénopis, in Cielo e squarcio (pag. 105)
  • Ecc. ecc.

Un altro post sullo stesso argomento si trova qui: https://www.mariovalentini.net/a-una-marina-di-libri-con-silvio-perrella-e-ugo-cornia/

Alfredo Jaar all’Istituto Gramsci di Palermo

ZACentrale, lo spazio dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo la cui programmazione da qualche mese è stata affidata alla Fondazione Merz, ha inaugurato martedì 15 Febbraio un “palinsesto di incontri, dibattiti e contaminazioni tra i territori della narrazione, i linguaggi dell’arte e della cultura contemporanea”, negli spazi del vicino Istituto Gramsci. Il primo ospite è stato l’artista, architetto e regista cileno Alfredo Jaar che ha proposto un percorso dal titolo Cultura=Capitale? Ci sono stato, e ho preso un po’ di appunti che trascrivo qui.

Martedì 15 Febbraio, ore 18 circa. L’annuncio “ingresso libero fino a esaurimento posti” mi convince a sbrigarmi in fretta e schiodarmi da casa con un po’ d’anticipo.

Arrivo presto, dunque, nel vialone principale dei Cantieri Culturali della Zisa. Passo prima accanto allo ZACentrale, dando una sbirciata al padiglione. Da qualche tempo le due grandi vetrate d’ingresso allo spazio espositivo sono sormontate da una scritta al neon. È un’opera di Alfredo Jaar dal titolo Due o tre cose che so sui mostri. Riporta una frase tratta (un po’ alla lontana) da Antonio Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri”.

Il capannone dello ZACentrale e quello in cui si trova l’Istituto Gramsci distano forse nemmeno cinquanta metri. In questo momento sono uniti dal comune riferimento a Antonio Gramsci. Ma non si sa ancora quanto durerà: l’Istituto Gramsci infatti è ancora una volta a rischio di chiusura; l’opera di Alfredo Jaar invece credo sia esposta lì a tempo determinato e prima o poi traslocherà.

(Che in una città così povera di biblioteche pubbliche e di quartiere un luogo come l’Istituto Gramsci possa rischiare di chiudere mi sembra, al di là di tutte le ragioni, sempre che ci siano, una cosa del tutto irragionevole).

Libri per la consultazione e il prestito – Istituto Gramsci, Palermo

Arrivo presto, dicevo. Entro. La sala è piena a metà. Mi siedo a uno dei banchi per la consultazione dei libri, su cui posso appoggiare il mio taccuino. Passano dieci minuti e la sala diventa pienissima. Alfredo Jaar parla in un italiano incerto, decide presto di continuare in spagnolo.

Poi dà l’avvio alle immagini e, da quel momento, tutto il suo discorso lo farà in inglese.

Comincia proprio a parlare di Gramsci e a far vedere le opere che gli ha dedicato: un gran numero di ritratti, schizzi e disegni, alcuni dei quali sono andati a finire sulle copertine di alcune edizioni delle Lettere o dei Quaderni.

La frase che ora sta all’entrata dello ZACentrale, racconta, l’aveva già utilizzata per dei lavori fatti a Roma per il MAXXI. C’era la città piena di cartelloni con questa frase. Per un mese i giornali si erano chiesti chi l’avesse fatta mettere e che cosa potesse annunciare. Qualche giornalista aveva detto che evidentemente si trattava della nascita di un nuovo partito di ispirazione comunista. Racconta Alfredo Jaar che il direttore del museo (o era il curatore della mostra?) lo aveva chiamato e gli aveva detto: “Tu lo devi dire che è una tua opera”. Ma lui aveva continuato a star zitto. Erano passate un paio di settimane, i cartelloni continuavano a comparire in tutta la città. Qualche giornalista aveva iniziato ad affermare che era una campagna pubblicitaria del Manifesto, noto quotidiano comunista. Lo avevano chiamato di nuovo: “Lo devi dire che è una tua opera!”. Ma lui niente. Tra ipotesi e illazioni, è passato circa un mese prima che venisse rivelato che i cartelloni che si incontravano da tempo per la strade di Roma erano un’opera di quel famoso artista cileno che faceva di nome Alfredo Jaar.

Era la fine del 2018, i giorni del primo governo Conte, di cui Salvini era ministro degli Interni. L’opera faceva parte di un progetto intitolato La strada. Dove si crea il mondo. Recupero qualche informazione on-line, da un articolo di Artribune, e vengo a sapere che Chiaroscuro (questo è il titolo che Jaar aveva dato al suo “intervento urbano”) era “un’invasione per la Capitale di manifesti verdi e rossi” e che i manifesti con la frase di Gramsci erano stati “ospitati dal circuito comunale delle affissioni cittadine fino al 24 dicembre 2018, e distribuiti liberamente sotto forma di poster al MAXXI per tutta la durata della mostra”.

Estraggo dallo stesso articolo alcune precisazioni dello stesso Jaar su questo lavoro, che personalmente faccio fatica a chiamare “opera”:

In tempi come questi, in cui il fascismo sembra riaffermarsi, torno sempre a Gramsci e al suo pensiero, all’ombra del quale si è sviluppato il mio lavoro. La dichiarazione che ho usato per il mio intervento pubblico a Roma è una riflessione perfetta su quello che penso stia accadendo oggi in Italia. La frase originale di Gramsci era la seguente: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Questa dichiarazione è stata tradotta in molte lingue e la mia versione preferita era in francese: “Le vieux monde se meurt, le nouveau monde tarde à apparaître et dans ce clair-obscur surgissent les monstres”. Poi per caso, ho scoperto una versione italiana, traduzione di quella francese, che mi è piaciuta moltissimo perché al posto della parola interregno usa chiaroscuro, e al posto di “i fenomeni morbosi più svariati” usa “mostri”. Ho usato questa traduzione perché la trovo potente e poetica allo stesso tempo.

Ilaria Bulgarelli, “Cosa significano quei manifesti su Gramsci che hanno invaso Roma?” – Artribune – 20 Dicembre 2018-
https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2018/12/cosa-significano-quei-manifesti-su-gramsci-che-hanno-invaso-roma/

Mi chiedo che opera d’arte sia questa, che non è propriamente un’opera d’arte. E poi, generalizzando, di conseguenza: che arte è questa, che non è propriamente un’arte? E la domanda si farà sempre più precisa man mano che guardo le immagini e ascolto. Che arte è questa che non è un dipinto, né un ready-made, né un’istallazione e nemmeno una performance? È un’arte che prevede un intervento su uno spazio fisico (la città e i suoi spazi pubblicitari) ma che non si esaurisce in questo. Più che un intervento su uno spazio concreto è uno spazio mentale quello su cui Alfredo Jaar, comincio a capire, lavora. Lo spazio dei discorsi pubblici, delle notizie e delle opinioni. È la politica delle immagini, dirà nel corso dell’incontro, quel che gli interessa. Va bene, le immagini. Ma lì, nel lavoro per il MAXXI, non era tanto un’immagine ad essere il vero centro dell’intervento. Il cuore dell’intervento era un manifesto, affisso dovunque per le strade di Roma, senza spiegazioni né indicazioni precise, in attesa di vedere l’effetto che fa.

L’opera d’arte come innesco o miccia, insomma, in attesa di qualche reazione, qualunque essa fosse.

È anche questa l’arte contemporanea, comincio a capire. E devo dire che la qual cosa non mi dispiace.

Saranno ormai le 19 circa e Alfredo Jaar va avanti con il suo racconto. Intreccia immagini a storie, alterna aneddoti e battute a riflessioni su alcuni degli interventi artistici che ha portato avanti negli ultimi anni in varie parti del mondo. È abilissimo a legare segni e parole, dosando pieni e vuoti, pause e accelerazioni, e soprattutto refrain. La sua è un’arte retorica molto efficace: risulta impercettibile. Si dispiega nascondendosi.

Racconta di un intervento di qualche anno fa, realizzato nella cittadina di Skoghall in Svezia; poi di un progetto sulla Cupola del Marche Bonsecours di Montreal.

Alfredo Jaar all’Istituto Gramsci di Palermo

Il ritmo della narrazione è scandito da alcune immagini ripetute, che funzionano come pause o cesure tra un racconto e l’altro. Una sequenza di poche immagini, sempre la stessa. Una breve sequenza che, in un montaggio rallentato, silenzioso e sospeso, mostra prima una nuotatrice che prende su un bel respiro, per un attimo, forse prima di un tuffo (è un frammento di qualche secondo) e poi (in sequenza) le foto del corpo morto del piccolo Alan Kurdi disteso sulla spiaggia e quelle di un poliziotto che lo prende in braccio e lo porta via. La sequenza è lunga il tempo di un una brevissima immersione.

Se il breve frame della nuotatrice, di cui nulla sappiamo, è per noi un piccolo enigma, i due-tre scatti del piccolo Alan Kurdi sono ben conosciuti, li abbiamo visti centinaia di volte, sono stati riproposti dalla stampa e dalle televisioni di mezzo mondo. Ormai, quando si riaffaccia su qualche social media, passa quasi inosservata, come un rumore di fondo indistinto nell’ingorgo quotidiano di opinioni, immagini e discorsi fatti in pubblico e destinati al macero nel volgere di pochi secondi. Eppure, ripresentata da Alfredo Jaar in questo brevissimo montaggio di pochi frammenti, in questo refrain rallentato che torna e ritorna scandendo il ritmo e l’alternanza dei racconti, è come se quella foto ci fosse restituita (come dire?) ripulita. Trova una presenza nuova e può riprendere a comunicare, parlare, significare qualcosa.

Quella foto annuncia un discorso che verrà fatto tra un po’? O forse Jaar l’ha messa lì solo per chiamarci in causa? La ripropone, come un interrogativo che chiede risposta? O vuole salvarla dallo smemoramento? Non lo sappiamo ancora cosa ci voglia dire e quale piega debba prendere il suo racconto, però funziona.

(seguirà, forse, una seconda parte con la continuazione dell’incontro)

Che cos’è una porta

[si può leggere come invece la pensa Perec sulle porte in questo precedente articolo: https://www.mariovalentini.net/la-rivincita-della-porta-ovvero-il-lockdown-visto-da-georges-perec/ ]

Che cos’è una porta? Questa domanda, che sembra prevedere una risposta banale e scontata, nasconde in realtà un gran numero di insidie.

La porta è quanto di più instabile esista. Entità doppia, non di rado mette radici in quella particolare figura retorica che viene chiamata ossimoro.

La porta infatti incardina in una sola parola due contrari, degli opposti che convivono senza riuscire a trovare pace o conciliazione: la porta separa e unisce, è entrata ma anche uscita, si apre ma si può chiudere. O viceversa (frase che non fa lo stesso effetto e che non dice la stessa cosa): la chiudi ma si può sempre aprire.

Spalanca corpo e sguardo verso l’aperto ma può anche seppellirti dentro un carcere o in una specie tomba. Durante il lockdown, ad esempio, le porte ci hanno preservato dalla diffusione della malattia, e dunque ci hanno protetti. Ma alla lunga ci hanno chiusi in una galera domestica. Le abbiamo percepite come salvezza e condanna, con rabbia e rassegnazione.

La porta è confine e legame. Mette in comunicazione due spazi e tutto quello che riguarda e abita quegli spazi. Ma nel momento stesso in cui li mette in comunicazione finisce per disegnare (o designare?) un perimetro: una ben netta separazione.

Una porta la puoi spalancare, con gesto arioso e liberatorio, abbiamo detto. Ma può anche essere sprangata. E qui il doppio si raddoppia, perché puoi venire sprangato dentro o puoi essere tu a sprangarti dentro. O puoi essere tu esterno, e allora la porta sprangata ti lascia fuori. Non ti contiene più. Ti esclude, ti mette ai margini. Anzi, fuori dal margine. Chi è dentro (se dentro c’è ancora qualcuno) ti ha abbandonato lì fuori alle intemperie.

Ma stiamo ancora girando attorno alla domanda senza aver dato una vera risposta. Dunque: che cos’è una porta?

Tecnicamente, se cercate in qualsiasi vocabolario (io ho consultato il Gabrielli, il Devoto Oli e quello on-line della Treccani), per porta si intende un’apertura praticata in una parete, recinto o cinta muraria. Un vano che viene (tenuto) aperto per consentire il passaggio.

La parte mobile

Ma è proprio un vizio della porta quello di non essere mai semplice e univoca, perché sappiamo tutti che la porta non è solo il vano o l’apertura. Si chiama porta anche il serramento applicato al vano per consentirne la chiusura e quindi l’eventuale riapertura. Un altro ossimoro, insomma: la porta ha una sua parte mobile e una immobile.

La parte mobile è il serramento: si può aprire, chiudere, anche solo socchiudere. Si può aprire facilmente abbassando con molta rilassatezza la maniglia. Ma la maggior parte delle porte ha un chiavistello e dunque si può chiudere a chiave. Se è chiusa a chiave e la chiave non si trova o è andata perduta, se la serratura si è rotta, la porta dovrà essere allora scardinata, sfondata, abbattuta. Bisognerà esercitare una notevole forza, addirittura violenza, o viceversa molta furbizia e arte: si dovrà fare effrazione.

IL varco è fragile

Il varco o apertura raramente è sprovvisto di una sua chiusura. Chi apre il varco, insomma, pensa bene per prima cosa di dotarlo di tutto il necessario per poterlo richiudere in qualsiasi momento. Non si fida. Quando ha tirato su il muro, comprensibilmente ha evitato di murarsi dentro, di chiudersi in una trappola. Ma ora, con il varco spalancato, o forse sarebbe meglio dire non protetto, non dorme sonni tranquilli.

La porta insomma è anche un punto di estrema fragilità. Nelle notti insonni o in cui ti addormenti a fatica, se ti sarai dimenticato di chiudere la porta a chiave (o non avrai voluto farlo), il pensiero di quella porta poco protetta ti si pianterà in testa portandoti ancora pensieri e pensieri.

Non vorresti barricarti. Hai una certa fiducia nel mondo lì fuori. Ma se davvero desideri prendere sonno una volta per tutte, ti alzerai dal letto, cercherai al buio le chiavi di casa e alla fine darai almeno un paio di giri al chiavistello. Quel gesto semplice sarà forse d’aiuto a lasciare fuori di casa le inquietudini, ti guiderà (si spera) una buona volta nel sonno.

Nelle città antiche, che a differenza di quelle moderne erano dotate di cinte murarie e dunque di porte, le porte erano il punto debole, l’elemento da proteggere. In tempo di pace, tutto a posto: la porta sta spalancata, consente un rapporto con la campagna. La città potrà dunque aprirsi all’esterno e farsi mercato. Ma in tempo di guerra sono guai. Servono accorgimenti, serve correre ai ripari. La porta va rinforzata perché, essendo un varco chiuso solo temporaneamente e in modo precario, è il punto da cui la città può essere definitivamente perduta.

L’ingegno umano così si dà fare, cerca rimedi e li trova. Sull’enciclopedia Treccani leggo, alla voce dedicata alle cosiddette porte urbiche, cioè delle città:

Nel sistema difensivo costituito dalla cinta muraria, la p. rappresentava un’interruzione delle cortine e quindi un punto debole che occorreva rafforzare con dispositivi fortificati particolari. Si trovano così, nelle p. urbiche delle città di epoche remotissime e di civilizzazioni diversissime, sistemi abbastanza simili di rafforzamento: torri affiancate o sovrapposte alla p., percorsi obbligati a portata di tiro dei difensori, ponti mobili e fissi, difese esterne formate secondo le epoche da doppie cinte o rivellini antistanti.

L’apertura o vano

Ma ancora non abbiamo detto tutto di com’è fatta una porta. Serramento a parte, il vano o apertura è anch’esso un insieme complesso. Nulla è lasciato al caso.

C’è una soglia: la parte bassa, orizzontale, calpestabile. Ci sono gli stipiti: le due parti laterali, che vanno su verticali, dalla soglia verso l’alto. Sopra generalmente sono chiusi, sormontati da un altro elemento orizzontale: l’architrave. Ma a delimitare il varco può esserci anche un arco.

Lo spessore del muro si chiama imbotte. Per incardinare una porta, nel senso del serramento, è necessario creare un infisso: servirà quanto meno un telaio.

Se tutto questo manca, più che diventare una porta quell’apertura rimarrà quasi a livello di breccia: sarà una semplice fenditura, uno squarcio. Qualcosa di estremamente precario, sintomo di un luogo abbandonato, in rovina o non finito.

Designerà l’inabitabile, il residuo.

Spazio inospitale, concesso alle erbacce, esposto alle intemperie, destinato al saccheggio.

La memoria di Cecilia Mangini

L’ultimo film di Cecilia Mangini

“Sono le fotografie che mi ricordano le cose, perché io sto perdendo la memoria” dice Cecilia Mangini in Due scatole dimenticate. Un viaggio in Vietnam, il suo ultimo film, realizzato con Paolo Pisanelli. Mentre parla si aggira come una rabdomante, circospetta, in cerca di qualche piccolo tesoro, tra un ingombro di oggetti disseminati per terra, tutt’attorno a un tavolino basso. Due scatole piene di provini ritrovate dopo almeno cinquant’anni nel fondo di un armadio sono state l’occasione del film. Due scatole piene di fotografie fatte in Vietnam tra il 1964 e il 1965, nel corso di un viaggio lungo tre mesi in compagnia del marito, Lino Del Fra. Erano andati lì per un sopralluogo in vista di un film (mai girato a causa della guerra).

Era il mese di maggio del 2019 e non ricordo più dove avevo letto questo fatto che Cecilia Mangini sarebbe stata a Palermo per una masterclass nella sede siciliana della Scuola Nazionale di Cinema. Il programma diceva che in serata ci sarebbe stata la proiezione di Due scatole scomparse e un incontro con la regista aperti al pubblico. Alla Zisa, proprio qui a due passi. Nemmeno la fatica di prendere la macchina. Ci sono andato proprio per vedere e ascoltare lei. Poi (ma questo conta pochissimo nell’economia dei fatti) alla proiezione ho incontrato anche un mio amico, studioso di cinema, che non vedevo da più di dieci anni e che abita tra Milano e il resto del mondo, al quale ho detto: “ma tu sei a Palermo e non mi chiami!”. Ha nicchiato. Poi lui ha detto: “ridammi il tuo numero, domani ti telefono e se puoi ci vediamo”. Mai più sentito.

Scuola Nazionale di Cinema- sede siciliana ai Cantieri Culturali della Zisa (Palermo)

Carotaggi

“La memoria è come un deposito geologico. Si fa un carotaggio e si arriva all’olocene, al pleistocene, sempre più giù. Anche con la memoria è così”, aveva detto Cecilia Mangini a Palermo commentando il suo film, e non mi sfugge l’autoironia di questa ultranovantenne.

Non la ricordavo affatto questa frase. Ho recuperato questo mio personale pezzettino di memoria scomparsa grazie a un video, fatto in occasione di quell’evento, pubblicato sul sito di Repubblica. Sfrutto questa frase salvata dalla dimeticanza per fare il mio personale carotaggio su quello che mi fa venire in mente il nome e la figura di Cecilia Mangini. Oltre al mio amico studioso di cinema che non mi ha più chiamato:

  • Essere donne, bellissimo film del 1965 sulla condizione della donna tra lavoro e famiglia, visto su youtube;
  • All’armi siam fascisti!, film del 1962, visto su una piattaforma che ora non ricordo qual è, ma a cui i miei due familiari erano abbonati.
  • la Storia Fotografica della Società Italiana, una collana di libri pubblicata alla fine degli anni ’90 da Editori Riuniti.
  • Una mostra delle fotografie di Cecilia Mangini scattate alle Eolie, visitata proprio a Lipari, al Castello, in una sala di fronte al Museo Archeologico, tre, quattro, forse cinque anni fa.

Mi piacevano da matti quei libri della Storia fotografica della società italiana. Ma credo che piacessero solo a me e a pochi altri. Li ho comprati tutti. I primi a prezzo intero in libreria. Gli altri a metà prezzo tra gli usati. Poi sono spariti. Poi è sparita anche la casa editrice, gli Editori Riuniti, che però dopo qualche tempo è riapparsa. Ora esiste di nuovo. Io pure ci sono, magari fatto a pezzi, tutto un po’ smembrato, una gamba lì, un pezzo di cervello dall’altra parte: non ci sono proprio tutto tutto. Cecilia Mangini invece pochi giorni fa, esattamente il 21 Gennaio, se n’è andata. Aveva 93 anni e a Palermo, ancora un anno e mezzo fa, era lucida e arzilla nonostante si muovesse con l’aiuto di una stampella. I suoi 93 anni se li portava benissimo.

Andrea Nemiz, La ricostruzione. 1945-1953, Editori Riuniti

Lipari

Lì, in quella specie di storia d’Italia per immagini, nel volume intitolato La ricostruzione. 1945-1953 curato da Andrea Nemiz, c’erano alcuni scatti del primo reportage realizzato da Cecilia Mangini nel 1950: un lavoro su Lipari, le immagini dei lavoratori delle cave di pomice. In una foto si vedevano delle donne lavorare. La didascalia diceva: “Le lavoratrici delle cave di pomice: un sacco in testa, un ombrello per proteggersi dal sole cocente, la bottiglia dell’acqua sempre accanto”. In un’altra foto si vedevano degli uomini lavorare, in mutande, dei fazzoletti in testa con dei nodini fatti ai quattro angoli, per ripararsi dal sole. La didascalia diceva: “I sacchi di pomice sono immagazzinati dagli uomini a forza di braccia; una piccola mascherina e un fazzoletto annodato in testa sono un’illusione per un’impossibile protezione dalla silicosi”.

Sono immagini inevitabilmente dominate dal bianco. Distese di bianco intervallate da poche forme scure a formare improvvisi, nettissmi contrasti. Una fotografia tesa a testimoniare la fatica degli uomini, le sacche di miseria e le contraddizioni sociali della Repubblica italiana appena nata. Ma in cui dalla miseria affiora a tratti la bellezza.

Silicosi

La silicosi è una malattia polmonare causata dall’inalazione di minuscole particelle di diossido di silicone. Una tipica malattia del lavoro. La maggior parte delle volte portava alla morte. Anzi: è la prima e più antica malattia polmonare da lavoro conosciuta in Italia, quella riscontrata da più tempo. La contraeva chi lavorava in miniera o nelle cave, gli spaccapietre, chi faceva esplodere rocce e sabbia. E tra questi, appunto, i cavatori di pomice di Lipari. Del cui lavoro, una decina di anni dopo le fotografie di Cecilia Mangini, nel 1961, il giornalista Francesco Rosso avrebbe scritto in questo modo: ” L’intero versante settentrionale dell’isola di Lipari è una immensa cava di pomice, parte a cielo aperto e parte solcata da centinaia di anguste gallerie. […] Nei mesi estivi, quando il sole saetta implacabile, lavorare lassù è pauroso. La roccia libera un calore intollerabile, la polvere cocente soffoca, la sete tortura e i meno forti cedono. Un capogiro, uno sforzo maldestro per muovere sulla liscia parete le gambe impiombate di stanchezza, e la voragine si spalanca sotto gli ignari, che – storditi dall’insolazione – hanno già perduto conoscenza ancor prima di iniziare il volo di trecento metri verso l’abisso d’ombra”.

Al fondo

Al fondo del carotaggio: due ricordi, i più vecchi. Da bambino passavo le estati in un paese a circa venti chilometri da Messina e a non più di dieci chilometri da Milazzo. Il mare era pieno di pesci, e già questa è una notizia. L’entroterra era pieno di orti (anche questa è una notizia). Di fronte alla spiaggia: le isole. In preciso ordine, da ovest a est: Vulcano, Lipari Salina, Panarea, Stromboli. C’è tutta una scienza piuttosto complessa, e che genera infinite polemiche tra la gente del posto, legata alla vista delle isole dalla costa tra Milazzo e Messina. Meglio sorvolare.

La geografia dei luoghi non troppo distanti da lì ti mandava notizie per mare, come messaggi in bottiglia. Le cose trovate in spiaggia raccontavano storie. Pezzi di mattone rosso levigati parlavano di cantieri di case in costruzione vicino alla spiaggia, magari abusive. La pece che si attaccava ai piedi se camminavi distratto raccontava della vicina raffineria di Milazzo o magari di qualche nave, partita da lì, che aveva lavato le stive svuotando il risciacquo in pieno mare. Uno strumento perfetto per pulire la pece dai piedi se ti capitava di beccartela in spiaggia era la pomice, proveniente dritta dritta dalle spiagge di Lipari, lì davanti, di fronte al tuo sguardo.

E poi un giorno, dopo avere ascoltato come un aborigeno dell’Australia queste storie narrate da oggetti depositati nei luoghi, a Lipari i miei genitori mi ci hanno portato. E ora, non so se è un inganno, ma ricordo con una certa precisione una discesa di polvere o sabbia bianchissima da cui ci siamo lasciati andare, rotolando giù giù per una cinquantina di metri, fino a cadere direttamente in mare. Una discesa che durava una vita, tanto era lungo (ma soffice) quella specie di burrone. Però francamente non so. Non so se è valido questo ricordo o se è successo qualcosa di simile a quello che raccontava Cecilia Mangini qui a Palermo: “Pensa e ripensa sono venuti fuori tanti ricordi. Io se li ho aggiustati a modo mio non lo so”.

[sulla recente scomparsa di Cecilia Mangini si può leggere questo articolo di Cristina Piccino, uscito sul Manifesto: https://ilmanifesto.it/cecilia-mangini-il-mondo-dentro-al-fotogramma/

Il documentario di Cecilia Mangini Essere donne del 1965, si può vedere qui: https://www.youtube.com/watch?v=mk25pEfwcX4

Sulle cave di pomice di Lipari ho trovato in rete questo approfondimento, che mi sembra buono e da cui ho tratto il brano di Francesco Rosso: https://narraredistoria.com/2020/05/03/storia-la-pomice-di-lipari-storia-di-unindustria-forse-finita/ ]

La dinamica degli addii

Non so quando è cominciata questa tendenza dei libri che possiedo e che ho letto a scomparire. Ci sono stati anni che avevo tutto sotto controllo. Riuscivo esattamente a ritrovare in pochi minuti quello che cercavo. Poi è successo qualcosa. Una specie di esplosione ha disintegrato quello che era compatto. Un big bang ha dato in pasto all’entropia quello che era circoscritto, concluso, perfettamente sotto controllo.

Non è solo una questione di quantità, non è solo che anno dopo anno i libri sono aumentati e dargli un posto è diventato complicato. Dev’essere successo qualcosa che ha a che fare con la vita nel suo insieme. Si sono visti esposti al maltempo, travolti da un vento costante, gelido o afoso, umido o secco a seconda delle giornate, senza avere mai modo di calmarsi e stare tranquilli nel loro posticino sicuro. Così hanno iniziato uno alla volta a dileguarsi. E ormai se cerco qualcosa che mi servirebbe per questo o quell’altro argomento è di regola non trovarlo. Passano i giorni e non è detto che quel libro salti fuori.

Proprio oggi, e la cosa comincia a diventare preoccupante, cercavo un libro che ho finito di leggere non più di dieci giorni fa. Volevo scrivere due righe di appunti qui sopra, su questo nuovo spazio che sto provando a organizzare. Un’intervista a Thomas Bernhard, di questo si trattava, un libro uscito da non più di qualche mese. Niente da fare: disperso anche lui.

La stessa cosa purtruppo succede alla memoria. Sapevo tutto. Sapevo autore, titolo, data di pubblicazione e collana dei libri. Luogo e data di nascita di ciascun autore. Pure i traduttori ricordavo. Ora, che dire? Anche nella mia mente è successo un big bang. Mi ricordassi mai un titolo, un’edizione! Mi dico: ecco comunque a che servono i taccuini, le memorie esterne, i quaderni d’appunti. Ed è così che ho incominciato a accumulare in maniera patologica i cataloghi, le schede di sintesi, gli strumenti di raccolta. Scaffali e cassetti dappertutto. Mi chiedo se servirà a qualcosa e se vale la pena sprecare tante energie per tenere attaccato alle sottane (che non porto) qualcosa che non desidera fare altro che sfuggirmi. O se piuttosto non è meglio abbandonarsi senza troppi crucci a questa specie di movimento centrifugo che sono tentato di chiamare in questo modo: la dinamica degli addii.